Una fuga avventurosa: “Poco prima del tramonto, dopo essersi appeso a tram e camion, era arrivato alla riva e osservava i traghetti per Staten Island caricare e scaricare. La folla si precipitava giù dalla struttura sopraelevata, si riversava nel terminal del traghetto quasi fosse spinta dal vento.”
Un silenzio d’oro: “Negava sempre di sapere qualcosa e chiedeva al suo interlocutore di aspettare che potesse consultarsi con il marito. Di conseguenza, quando Michele parlava, le sue parole sembravano straordinariamente preziose. Bastava che dicesse: «Beh, chiunque abbia il voto dovrebbe votare per Peter Doolan», e Peter Doolan otteneva i voti.”
La chiamata dell’arte: “Giovanni, invece, aveva in mente qualcosa di più vago del fare soldi, qualcosa intriso di rosa, avvolto in una nebbia che si sfilacciava in spirali allettanti, un riflesso d’acqua illuminata dal sole, immagini impossibili che emergevano da un fondo misterioso di ricordi senza nome e senza forma.”
Venerdì 28 marzo, readerforblind porta per la prima volta in Italia Il fuoco nella carne (The Fire in the Flesh, 1931) (readerforblind 2025, pp. 428, € 20 con traduzione italiana di Erika Silvestri). Si tratta del romanzo d’esordio di Garibaldi Mario Lapolla, figura di spicco della letteratura italo-americana dei primi decenni del Novecento.
Lapolla ha raccontato il fenomeno dell’emigrazione con uno sguardo privilegiato: la sua esperienza personale e il lavoro nell’istruzione gli permisero di cogliere sia le speranze dei pionieri italiani in America sia le sfide della generazione successiva, sospesa tra l’eredità culturale e la volontà di affermarsi in un mondo nuovo. Con i suoi romanzi, ha contribuito a definire la letteratura dell’emigrazione, illuminandone le contraddizioni e i sogni infranti. Tra le sue opere, pubblicate dalla Vanguard Press, si ricordano Miss Rollins in Love (1932) e The Grand Gennaro (1935).
Il libro intreccia due filoni narrativi principali: una storia d’amore segnata dal desiderio e dal peccato e un percorso di ascesa sociale costruito sulla determinazione e sul compromesso. Attraverso questi elementi, Lapolla dipinge il quadro della vita degli immigrati italiani negli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso.
La protagonista, Agnese, è una donna che rifiuta di restare nell’ombra, determinata a conquistare il proprio posto in una società che la giudica e la teme. Dopo una relazione proibita con il sacerdote Gelsomino e lo scandalo che ne deriva, lascia l’Italia insieme al padre, al fratello, al figlio Giovanni e al marito di convenienza, Michele, per cercare un futuro in America.
Mentre Michele si lascia travolgere dall’apatia e dall’insoddisfazione, Agnese si fa strada nel mondo degli affari, costruendo un impero immobiliare a East Harlem e affrontando senza timore chiunque cerchi di ostacolarla. La sua scalata la porterà a ottenere il rispetto della comunità italiana, mentre il figlio Giovanni cerca di sfuggire al destino che la madre sembra aver tracciato per lui. Tra le strade del quartiere degli immigrati, il giovane si avvicina al padre biologico e tenta di costruire la propria identità attraverso il disegno e la pittura, trovando nell’arte una via di fuga.
Con uno stile incisivo e privo di filtri, Lapolla racconta un’America fatta di illusioni e disinganni, dove il denaro rappresenta il riscatto, il passato incombe come un’ombra e la famiglia diventa un campo di battaglia tra tradizione e cambiamento. Il fuoco nella carne offre un ritratto potente e autentico della comunità italiana d’oltreoceano, sospesa tra il desiderio di appartenenza e la necessità di reinventarsi. E la fiamma interiore anima i protagonisti spingendoli “verso il cambiamento, ma anche verso la distruzione”.
Carlo Tortarolo
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Per giorni, il Conte Bertoldi oscillò e fu sballottato attraverso l’Atlantico. Accalcati miseramente nei portelli, i contadini dai volti rubicondi avevano già cominciato a perdere il loro colore da gente di campagna, ma non il loro spirito selvaggio. Si sedevano attorno a tavoli improvvisati – scatole, tavole o un baule capovolto – giocavano al tocco per bere, scommettevano a carte o canticchiavano e cantavano al suono stridente delle fisarmoniche. I suonatori di mandolino, nelle notti calme, riempivano l’aria salmastra con il loro struggente strimpellare di vecchie canzoni popolari. Quasi nessun presagio di difficoltà o esilio, pochi o nessun segno di rimpianto macchiavano la spontaneità dei loro raduni. Il viaggio era durato così a lungo che ormai si conoscevano per nome e molti gruppi si erano uniti per formarne altri più grandi, basati su un’ipotetica comunanza di sentimenti data dal provenire dalla stessa provincia.
A uno di questi gruppi, nonostante il loro volere di mettersi da parte, si unirono senza volerlo i Dantone e i Filoppina. A capo di questo gruppo era Francesco Crino, basso, grasso e muscoloso, con mani paffute e rugose come quelle di un bambino e folti baffi neri che dominavano un viso altrimenti privo di rughe.
Era già stato in America e si era auto-nominato ufficiale cicerone, promettendo di trovare lavoro per tutti e un posto dove stare. Si vantava di una conoscenza infinita su dove si trovavano questa o quella famiglia e dove la maggior parte degli abitanti di questo o quel paese si fosse stabilita a New York o in altre città. Bastava fidarsi di lui, e l’America avrebbe spalancato le sue porte migliori. Chi sarebbe voluto tornare nel vecchio paese a scavare nella melma che non ripaga mai quando, come lui, ci si poteva riempire le tasche di banconote? In America si poteva dire qualcosa a chi sta più in alto di te! C’erano quelli che ti comandavano in Italia, che ti facevano togliere il cappello e si facevano chiamare signori, che ti chiedevano regali a Natale. Questi ti avrebbero chiesto l’elemosina in America, e tu gli avresti affittato stanze, o saresti andato dai magistrati a intercedere per i loro figli delinquenti. Ma bisognava sapere come farlo. Si doveva avviare un’attività, anche se fosse stata solo quella di selezionare la spazzatura che arrivava dalle discariche lungo i fiumi.
«Ho messo insieme il mio gruzzoletto!». Le sue dita paffute accarezzarono vigorosamente il suo baffo imponente. «E non mi sono spezzato la schiena lavorando come ha fatto mio padre nella sua fattoria ipotecata. Guardami adesso» e senza vergogna, con orgoglio, intrecciò le mani paffute sulla sua pancia tonda. «Ho sempre da mangiare, anelli alle dita, vino quando voglio, e posso dire a Mastro Gaspare e Mastro Giuseppe e a quel signorone e quell’altro signorone cosa fare, con un gesto».
Agnese ascoltava con l’attenzione di una bambina.
«Che cosa ho fatto per avere il mio gruzzoletto? Ah, ah, ah», rise. «Non avevo paura di lavorare, raccogliendo stracci, rovistando nei rifiuti nelle discariche». Sussurrò queste ultime parole ad Agnese come se, nel profondo del suo cuore, se ne vergognasse in qualche modo.
«E ora», gridò un giorno, dopo un racconto particolarmente entusiasta delle sue imprese e dei soldi che aveva accumulato, «e ora, chi è che vuole un lavoro appena arriviamo? Vediamo».
Gli uomini si accalcarono attorno a lui a decine.
«Vedo che volete far fortuna in America. Bene! Come vi chiamate?»
In poco tempo aveva promesso di fornire lavoro a più di trecento uomini, alcuni sulle ferrovie, altri nei cantieri, altri ancora nelle discariche. E mentre segnava tutti nel suo quaderno, diceva: «Certo, c’è una piccola tassa per questo. Quando vi daranno il primo stipendio, toglieranno un dollaro per me. Solo un piccolo dollaro in una terra piena di dollari». Agnese ascoltava con attenzione.
Tranne mio fratello, ho due gambi secchi come uomini, disse al suo cuore che batteva forte. Ma darò loro il coraggio… Questo fannullone sta accumulando soldi troppo velocemente. Io farò lo stesso.
«Sei un tipo sveglio» gli disse, e con gli occhi gli fece credere molto di più.
Michele si era mostrato geloso, un pomeriggio, quando Agnese era uscita da dietro un ammasso di corde con Francesco al seguito, con tono ironico e remissivo. «Poltrone, fatti gli affari tuoi», gli disse. «Che cosa ne sai tu dell’America? Mi ha appena promesso che aprirà un negozio da barbiere per te».