Diciamocelo:
affinché non risulti un mero e abusato catalogo di (a volte troppo) consuete “nefandezze” tipiche di un certo stile di vita e di carriera, l’autobiografia di una rockstar ha bisogno di un protagonista un po’ fuori dai generis per stupire un lettore più esigente della media. Ecco, se siete alla ricerca di un tipo così, procuratevi questo “My Effin’ Life” (Tsunami Edizioni, I Ciclopi, 2025, pp 554, traduzione di Stefania Sarre), scritto da Geddy Lee in collaborazione con Daniel Richler.
Nato Gershon Eliezer Weinrib, il fenomenale frontman dei Rush è innanzitutto il frutto, come suo fratello e sua sorella, di una struggente storia d’amore e di una lotta per la sopravvivenza originatesi nei più terribili e tristemente noti campi di concentramento nazisti durante la Seconda guerra mondiale: è proprio in quei luoghi d’orrore per eccellenza, infatti, che i suoi giovanissimi genitori, lì rinchiusi insieme alla quasi totalità delle loro rispettive famiglie di ebrei polacchi deportati, riuscirono a trovarsi. E già la semplice lettura del terzo capitolo di questo tomo – una lettura che, vi avverto, crea un notevole disagio interiore anche al meno penetrabile degli animi- dà l’idea di un uomo che, nel volersi raccontare, non ha intenzione di omettere alcunché. Perché non si tratta semplicemente di un drammatico resoconto di soprusi, umiliazioni e atrocità, ma di un tentativo, e ben riuscito, di mettersi a nudo, di mettere a nudo soprattutto il proprio rapporto emotivo con la paura, con il terrore che solo la più inquietante delle paure può instillare in un uomo. Non solo, quindi, uno straziante resoconto di morte, ma un tentativo di razionalizzare il proprio rapporto interiore con la medesima e di comprendere fino a che punto un’eredità così angosciante possa devastare una persona e possa lasciargli la possibilità di un normale sviluppo psichico simile a quello degli altri. Molto crude e spesso altrettanto commoventi sono anche le pagine che Geddy Lee dedica all’improvvisa scomparsa del padre (avvenuta quando lui aveva dodici anni), che si trasformano in una profonda riflessione sul rapporto tra genitori e figli e sul concetto di perdita tout court.
Ecco, adesso starete pensando che il volume che avete tra le mani sia troppo pesante, troppo “orientato”. E invece… no, niente di più sbagliato! Al suo interno, fin dalle prime battute e senza soluzione di continuità fino all’ultima pagina, il piglio narrativo scelto da questo musicista (e personaggio) di eccezione è costantemente, davvero costantemente improntato all’ironia e all’autoironia, come nella migliore tradizione, verrebbe da dire, di certa letteratura ebraica che ha trovato nella prosa picaresca dell’immenso Mordecai Richler forse il suo vertice espressivo. Si ride spesso e volentieri, e di gran gusto, perché la sempre ricca aneddotica che lo sostanzia non viene mai affrontata col piglio machista del “sopravvissuto”, del rocker duro che non si lascia sopraffare dagli eventi e dalle circostanze, ma, piuttosto, da un divertito buontemponismo in grado di dar sempre conto della preziosa leggerezza e della inalienabile fragilità che alligna nel profondo di ognuno di noi e ci rende quello che siamo, cioè uomini.
Si può dunque dire e sottoscrivere che questo “Effin’ life” sia piacevole ed edificante da diversi punti di vista e abbia il non banale, ulteriore merito aggiuntivo di saper scendere anche in alcuni aspetti più tecnici del mondo della musica senza mai risultare di difficile comprensione per il profano. Un altro plus per niente scontato se si pensa a quanto intricate e pionieristiche a volte siano state le scelte dei Rush in sede di composizione, produzione e registrazione delle proprie elaborate canzoni, tanto da un punto di vista strettamente esecutivo, quanto da un punto di vista testuale (non si dimentichi a tal proposito la ricorrente ascendenza letteraria della maggior parte dei loro testi, come ben testimonia la loro hit più conosciuta, “Tom Sawyer”).
Che altro aggiungere senza rovinare il piacere della scoperta che sicuramente vi catturerà quando lo leggerete?
Niente.
Non lasciatevelo sfuggire.
Domenico Paris