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George A. Romero. Daniel Kraus. I morti viventi

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Quando, nel 1968, con un budget di appena 10.000 dollari, George Andrew Romero diede il primo ciak a La notte dei morti viventi certamente credeva di fare un buon film, il film della sua vita forse, ma quello che non poteva certo immaginare era che stava creando una categoria di pensiero per noi ­– in senso kantiano intendo – e una gabbia per sé.

Il successo della pellicola fu tale da imporsi nell’immaginario di ogni essere umano a qualsiasi latitudine. Da quel momento non abbiamo più potuto pensare al paradosso del morto che vive senza figurarci una delle sue creature.

Gli Zombie sono diventati più famosi dei Golem di Rabbi Löw, più famosi di Lazzaro di Betania persino.

Per lui, per Romero, è stata una condanna. Per il resto della vita gli hanno chiesto Zombie, Zombie e altri Zombie.

Invecchiando ne aveva persino fatto un romanzo, che però non era riuscito a finire.

E qui entra in gioco un suo grande fan e fortunato autore di storie per ragazzi. Quel Daniel Kraus coautore, insieme a Guillermo del Toro, del film premio Oskar La forma dell’acqua.

È arrivato in libreria, in Italia dal 24 settembre, il romanzo I morti viventi, edito da La nave di Teseo e tradotto da Alberto Cristofori.

La storia rispetta il paradigma del genere: un contagio impedisce alle persone di morire, tramutandole in creature di mezzo cui bisogna distruggere il cranio.

La pandemia è fortissima e si diffonde in tutto il mondo. I pochi umani sopravvissuti dovranno resistere, passando da un’avventura terrificante all’altra.

Tra questi troviamo un giornalista; un adolescente custode di un parcheggio di roulotte; un assistente del medico legale; un timoniere della marina e un burocrate affetto da fobie sociali.

Tutti loro sono estuari che convergono creando il grande fiume della storia.

Il bello di questo libro è l’empatia che si prova ad ogni pagina. La sensazione è talmente forte che ci sono momenti in cui sembra di essere presenti, e tutta la desolazione di quel mondo sia la tua.

In questo, credo ci sia molto di Daniel Kraus, la magia che è in grado di generare.

Penso, tra le tante, alla lunga sequenza al tavolo autoptico svolta tra Luis Acocella e la sua assistente Charlene Rutkowski che rappresenta un esempio di come si può parlare di sentimenti e d’amore in maniera avvolgente, sfruttando la vita, le cose banali della vita.

Allo stesso modo, il lettore si ritrova nel claustrofobico mondo di Etta Hoffmann, rinchiusa nel suo ufficio mentre fuori infuria la catastrofe. Attraverso i suoi occhi la registriamo, la sentiamo, siamo con lei e non la vogliamo abbandonare.

Nove su dieci la letteratura, come intrattenimento, perde nei confronti del cinema. I film, i video, sono più coinvolgenti e meno impegnativi da assorbire. Di contro la pagina scritta ha la sola coerenza come freno e un’arma mortale che la pone al di sopra di qualsiasi altra arte: la profondità.

Solo questo tipo di narrazione è in grado di condurci nella vita dei personaggi, illuminare tutte le sfumature di una scelta, un ricordo, un comportamento solo all’apparenza privo di senso. Grazie a questa prerogativa i libri diventano parte di noi e ci accompagnano.

In questo senso, la coppia Kraus/Romero ci offre un esempio inaspettato di letteratura riuscita a testimonianza che spesso i frutti più dolci si nascondono tra rovi spinosi e che la bellezza, quando non è guadagnata, vola via come fumo di pipa.

Pierangelo Consoli

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Di seguito presentiamo un estratto in esclusiva da I morti viventi, George Romero, Daniel Kraus, La nave di Teseo, 2020, pagg. 684, 22 euro.

Le sue gambe erano state amputate due anni prima.

Infezione diabetica, aveva sentito dire. Aveva visto gli infermieri dell’ospedale che la caricavano in ambulanza con una barella. Greer stava prendendo la posta quand’erano arrivati, e benché avesse distolto lo sguardo da Miss Shaw, buttata là come un pezzo di carne, aveva sentito gli infermieri scherzare come se la donna che trasportavano fosse già morta e non potesse sentirli. C’era un certo disprezzo nel modo in cui parlavano di Loro.

Se fossi in loro,” diceva uno, “starei in ospedale finché posso.”

Eh, siamo i loro valletti personali,” diceva l’altro. “Magari sono più svegli di quel che sembrano.”

Adesso Mama Shaw era fuori, a faccia in giù, e la camicia da notte rivelava i moncherini delle cosce. L’erba sotto la cupola era stata consumata da tempo; il fango colava dai pugni stretti di Mama Shaw. Greer si guardò intorno e si rese conto della situazione: c’erano chiazze di sangue diluite dalla pioggia sui gradini della roulotte di Mama Shaw e un sentiero scavato tra le foglie bagnate. La donna non era stata buttata lì. Si era trascinata fuori strisciando da sola.

Perché nessuno l’aveva aiutata, cazzo?

Greer si inginocchiò. La sua tuta si inzuppò d’acqua. Posò il telefono sul terreno bagnato, lo schermo illuminato con tre tacche incoraggianti. Non l’avrebbe mai più toccato.

Mama Shaw,” disse. “Sono Greer Morgan. La tiro fuori, okay?”

Con un risucchio, Mama Shaw sollevò la faccia dal fango. I capelli grigi scompigliati erano incollati alla pelle. Gli occhi erano del tutto bianchi; le pupille nere si agitarono sotto il muco prima di fissarsi su Greer. I tendini del collo di Mama Shaw si tesero mentre apriva la bocca in modo tale che Greer temette che si slogasse la mandibola. La dentiera schizzò fuori e atterrò nel fango. Dal buco senza denti emerse un ansito gorgogliante.

La roulotte della Señorita Magdalena oscillò di nuovo. I cavi che la tenevano assicurata gemettero per lo sforzo.

Greer controllò l’impulso di fuggire. Mama Shaw doveva essere stata vittima di un attacco. Greer era l’unica che poteva aiutarla. Afferrò con forza i polsi della donna. La pelle era morbida come la carne che le davano a pranzo. Quando assicurò la presa, i segni delle sue dita rimasero visibili. Era per il diabete? La malattia rendeva forse il sangue gelatinoso e la pelle spessa e scivolosa?

Mama Shaw era una donna pesante, ma quando Greer tirò, il suo corpo scivolò sulle foglie come se pesasse la metà. Naturalmente, pensò Greer, era priva di entrambe le gambe. Continuò a tirare finché la parte superiore del corpo uscì dal perimetro della cupola. Fango e foglie si erano appiccicati sulla bocca di Mama Shaw e le coprivano il naso. Soffocherà, pensò Greer, rammentando come, pochi minuti prima, aveva fatto finta di annegarsi nel cuscino. Il suo melodramma mattutino le appariva ora infantile.

Greer si chinò per togliere il fango dal volto di Mama Shaw.

Stai indietro!”

Greer trattenne un grido mentre Sam Hell correva sull’asfalto, con il cappello Kangol che gli proteggeva dalla pioggia gli occhi sbarrati. Aveva in mano una pistola. Non un fucile da caccia come quelli di Papà, ma un’arma automatica del tipo che i delinquenti amavano agitare sotto al naso degli amici. Teneva l’arma di lato, come Greer aveva visto fare solo nei film polizieschi. Il che non voleva dire che la pistola non le facesse paura. Greer si bloccò, timorosa di muovere anche solo la mano che teneva sul volto di Mama Shaw.

Sta soffocando!” supplicò. “Stai zitta e muoviti!” Le dita di Mama Shaw si strinsero al polso di Greer. Era un buon segno – voleva dire che la donna era abbastanza cosciente da avere paura. Ma Mama Shaw continuò a stringere finché le ossa del polso di Greer non scricchiolarono. A dispetto della pistola puntata verso di lei, Greer girò la testa e guardò Mama Shaw.

E Mama Shaw la morse.

© 2020 La nave di Teseo 

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