Con Season. La nuova stagione, George Harrison (Atlantide, 256 pagine, euro 19,50, traduzione di Enrico Terrinoni) riesce a trasformare la quotidianità in mito, a trovare la poesia nei silenzi di uno stadio di provincia. Il suo sguardo attento si posa su due uomini soli — un giovane e un anziano — che, senza saperlo, stanno disputando la partita più importante della loro vita.
L’autore scrive della fragilità umana, attraverso due tifosi, apparentemente distanti, ma che trovano conforto l’uno nell’altro. Le sue parole scorrono con la naturalezza di una cronaca sportiva rivelando la profondità di un rapporto che arriva inaspettato. In uno scenario popolato da cori e bandiere, l’autore costruisce un microcosmo in cui il calcio diventa metafora di resistenza, di appartenenza, di speranza.
I due protagonisti — il Giovane e il Vecchio — si incontrano per caso sugli spalti, legati da un amore sconfinato per la squadra della loro città. Harrison mette in luce attraverso particolari, che appaiono secondari, la nascita di un sentimento: un sorriso appena accennato, uno sguardo complice, un gesto di conforto dopo una sconfitta. E così un incontro casuale diviene un’amicizia silenziosa, che non deve dimostrare nulla se non il fatto di esistere. Nel raccontare le vite di questi due uomini l’autore compone un inno alla salvezza, alla speranza di trovare qualcuno con cui condividere cose semplici.
L’autore ci mostra cosa accade quando due solitudini si riconoscono, quando due uomini trovano in un contesto ordinario qualcosa di straordinario come la vicinanza. Questo romanzo non è solo un libro sul calcio ma una metafora sulla vita, che chiede a noi, come ai giocatori in un lungo campionato, di scendere ogni giorno in campo e non smettere mai di crederci.
Nancy Citro
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Per il Giovane – che aveva una vita davanti, e tante cose da sognare – era solo l’ennesimo sabato di calcio. Il primo sentore che qualcosa potesse andare storto lo ebbe quando emergendo dall’atrio dei bar vide che il posto accanto al suo era vuoto: era passato diverso tempo dall’ultima volta che il Vecchio l’aveva occupato. Le formazioni le avevano già annunciate e ora gli altoparlanti inondavano ogni settore con la stessa musica pop di sempre, una playlist che non cambiava mai da settimana a settimana. Le note e le voci perdevano definizione distorte da quegli amplifica tori enormi e a un volume inutilmente alto. Sembrava appiattire la musica. In campo, laggiù, i giocatori si riscaldavano. Sorpreso e stranamente turbato dall’assenza del Vecchio, il Giovane andò a prendersi una pinta, anche se fece fatica a godersela. Tornò che lo stadio si stava già riempiendo. Non c’era traccia del Vecchio. Anche dopo il calcio d’inizio il suo posto rimase vacante. Forse era l’unico posto vuoto di tutto il settore. Nel cerchio di centrocampo, il Grande Finn vinse a testa e croce e scelse di difendere la rete davanti al loro settore nel primo tempo. Avrebbero attaccato lì nel secondo.
Arrivati a quel punto, il Vecchio era oramai un riferimento concreto nella mente del Giovane, una parte integrante dello sta dio proprio come gli spalti o le bandierine o la panchina affossata da cui guardavano la partita il Tedesco, il suo staff e le riserve. Non era al completo senza il Vecchio. E poi questa, la prima partita in casa dell’anno, era importante. Il Giovane temeva che l’assenza del vicino fosse di cattivo auspicio. Ma le preoccupazioni durarono poco, solo cinque minuti, perché con una grande giocata l’Inglese fece una finta e superò l’ala sinistra avversaria. Qualche secondo dopo, con una piccola variazione sul medesimo movimento, fece lo stesso con il terzino di sinistra, lasciandolo a terra a gambe incrociate. Piovvero ap plausi dagli spalti e grida di incoraggiamento, mentre l’Inglese si portava con la palla lontano dal Giovane, diretto all’altro lato del campo, all’altra porta. Era questo che volevano i
tifosi dalla loro squadra: questo istinto d’attacco progressivo era il motivo per cui il Tedesco era stato chiamato ad allenare. La fascia sembrò aprirsi davanti all’Inglese, una linea bianca di vernice infinita che si spingeva fin dove lo sguardo poteva arrivare; oltre, verso i tifosi della curva opposta, superando il fiume e pure la città, attraversando il mare e proseguendo a est, fino ai terreni agricoli pieni di buche e di crateri al limitare del continente. Si poteva immaginare una linea che attraversasse le case di ogni tifoso dello stadio, per unire i Copia per la stampa luoghi di quelle vite disperate. Una linea distinta dalle ferite che ancora affioravano nella mente del Giovane, residui del party della settimana prima. L’Inglese, da solo in quegli acri di spazio, si spinse sulla linea laterale e vide le altre casacche gialle precipitarsi in area. Un centrale di centrocampo si staccò per sbarrargli la strada, ma l’Inglese era già troppo oltre per essere fermato. Ponderava il tiro calcolando costi e benefici, rischi e risultati. Passò un secondo e poi fece il suo cross. Il Grande Finn, non noto per la sua abilità nel gioco aereo, era smarcato e colpì di testa la palla smorzandola per l’Irlandese – di solito un panchinaro, appena riscattato dagli allenamenti. Tutti i tifosi di casa si alzarono in piedi all’unisono, guardarono la palla rimbalzare mentre l’Irlandese torceva il corpo preparandosi a tirare. Poi colpì di collo pieno, il contatto che 140 ognuno si aspettava di vedere, e i tifosi tutti aprirono la bocca e alzarono le braccia mentre la palla superava forte il portiere e gonfiava l’angolino della porta. I tifosi di casa eruppero in quel fragore universale inesplicabile che indica la rete segnata – eseguì la musichetta del goal. Alcuni si prendevano per mano; altri sventolavano le sciarpe in alto. L’Irlandese, piccolo in lontananza e stranamente vivido, come una statuina appena colorata, corse a festeggiare alla bandierina del corner. La curva ospite si ammutolì e il Giovane, e tutti a fianco a lui, si rivolsero alla massa dei tifosi ospiti con gesti rabbiosi e rimbalzando innocui contro altri tifosi di casa come loro in giubilo, armati com’erano di gioia. One-nil in your big day out, questo diceva il coro.
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Nel nuovo complesso residenziale ancora incompleto non di stante dallo stadio, il Vecchio usò il telecomando per aprire la porta del suo palazzo. La moglie lo seguì. In quel momento un ruggito – come un suono di onde che s’infrangono – sorse in lontananza. Il Vecchio sapeva cosa significava; era un goal, sorrise tra sé e sé al pensiero. Lui e la moglie si diressero agli ascensori. Pensò se magari ce l’avrebbe ancora fatta ad andare allo stadio per il secondo tempo – forse sì, se si dava una mossa. Un attimo dopo il Vecchio procedeva seguito dalla moglie sul la moquette del pianerottolo comune, diretti al loro appartamento. Nell’edificio c’era silenzio, a romperlo soltanto i passi della coppia e il respiro pesante di lui. Odori di vernice, come sempre. La moglie lo seguiva senza proferire parola. Sembrava comportar si come una bambina colpevole in attesa di essere sgamata, questo pensò il Vecchio, e il giubilo del goal aveva già lasciato il passo a un terrore montante, il sospetto malato della devastazione che lo aspettava una volta aperta la porta. Si fermò sullo zerbino, cercando tra le varie chiavi quella che gli avrebbe dato accesso all’appartamento. La infilò nella serratura e girò. Abbassò la maniglia e spinse. La porta si aprì e lui entrò immediatamente, lanciando uno sguardo all’open space che fungeva da cucina, salotto e sala da pranzo. Non c’era alcuna traccia di allagamento, né fumo o danni. Un piatto, una tazza e una forchetta ad asciugare nella rastrelliera. Lo strofinaccio ben piegato sulla maniglia del forno. L’unica cosa strana, la luce sul soffitto, rimasta accesa anche se il sole filtrava dalla finestra senza tende del balcone. Il Vecchio spense l’interruttore e si voltò perplesso verso la moglie, che gli sorrideva dall’uscio. Vedi, disse. Tutto ok senza di te.