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Georges Simenon. Il signor Cardinaud

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Hubert Cardinaud è un uomo rispettato e fiero dei risultati raggiunti, è sposato con Marthe, la donna che ha sempre amato già da ragazzo. La ama come si ama un essere inaccessibile, una divinità. Sebbene lei non lo ricambi mai dello stesso sentimento, la donna lo sposa, gli dà due figli. Accudisce la prole, provvede alla casa, cucina, come una qualsiasi brava moglie.

Hubert ogni domenica si reca alla messa nella chiesa del paese, accompagnato dal figlio che è già un ragazzo, taciturno e timido. Il romanzo ha inizio proprio dentro la chiesa durante l’omelia finale. All’uscita Hubert, col figlio accanto, compie il tragitto verso casa, sempre il solito, salutando i conoscenti, fermandosi in una pasticceria per comprare il dolce del pranzo di domenica. Tutto è abitudinario, quasi un rito; a ridosso della porta di casa, prima di infilarvi la chiave, come al solito Hubert si piega per spiare dalla toppa. Appena entrato capisce che qualcosa non va, in casa c’è odore di bruciato e l’arrosto brucia infatti dentro il forno. Marthe è scomparsa, la bambina nella culla è incustodita. Tutto il mondo di Hubert va in frantumi, tutte le sue sicurezze disciolte in una soluzione di incredulità e sconcerto.

Comincia così una investigazione puntuale e costante dei motivi che hanno spinto Marthe ad abbandonare casa e famiglia, a trafugare i risparmi destinati al rateo del mutuo. Giorno dopo giorno Hubert si fa un quadro completo della vicenda, sfidando reticenze e omissioni di chi è al corrente della vicenda, di chi lo compatisce, subendo la malignità dei tanti che gli rimproverano l’ascesa sociale, lui, figlio di un cestaio, diventato un compunto assicuratore cui il titolare ha promesso di farlo un giorno socio, lui che ha spezzato quasi ogni rapporto con la famiglia di appartenenza, che è visto come uno che si da arie da borghese, con una moglie che si crede chissà chi. Dopo il primo sconcerto (mai che si tramuti subito in un senso di affronto) in cui Hubert si sente annientato e prossimo alla rovina, in cui tutto può succedere, decide di trovarla, di seguirne le tracce, di «bere questo calice sino alla feccia», simile a «una formica ostinata che segue ostinatamente la sua strada, il suo destino, e che, ogni volta che il carico le sfugge, lo afferra di nuovo, pur essendo quel peso più grande di lei». Grande è la sua sorpresa quando scopre per vie traverse che la moglie è fuggita con un delinquente per tendenza, un essere abominevole tornato dalle colonie africane per ribadire la propria malasorte in madrepatria, attenzionato dalle forze dell’ordine da tempo, con nemici che gli hanno giurato di fargli la pelle.

Simenon pubblica questo romanzo nel 1942. Fa parte dei suoi testi sulla provincia francese in cui l’analisi si incentra sul carattere borghese del protagonista del quale ne sa evocare con maestria e poche parole l’intero afflato, ambizioni, manie e idiosincrasie, come nessun altro scrittore salvo Honoré de Balzac.

Con una abilità da cesellatore Simenon descrive un ambiente sociale, le sue strutture sociali, il suo tran tran quotidiano, l’apparente letizia di una società che si presenta appagata e consuetudinaria. Appena il suo occhio si rivolge dentro le cose, l’intimità contiene qualcosa che suona stonato, non sa comprimere un’ombra che potrebbe rilevarsi col marchio di un’aberrazione. Lì dove l’ordinario borghese si svela in realtà pura o malcelata ipocrisia, consunzione dei giorni senza passioni, senza amore, allora si mostra per ciò che è irrefragabilmente: vuoto emotivo, avidità, brama, invidia, energie che languono nella sola ansietà del giudizio degli altri, nel continuo riproporsi e modularsi dell’immagine di sé che si pretende di offrire all’esterno. Il tutto riassunto nella viltà che pesa su ogni singolo, viltà che fomenta l’esiziale: paralisi esistenziale, rassegnazione allo status quo, odio di classe o endofamiliare, capriccio, noia, sadismo.

Nessuna critica al modello borghese ha mai raggiunto in letteratura le vette di Simenon, per cui ogni individuo non è altro che un nemico del prossimo, con intere comunità intente a spiarsi a vicenda, dove la maldicenza la fa da padrona, dove il venerato è soltanto chi ce l’ha fatta, fosse pure un masnadiere, dove il virtuoso il buono è destinato al macello sociale come Luis Buñuel ha mostrato nei suoi film negli stessi anni in cui operava Simenon.

La realtà per Simenon è sempre duplice. Da un lato l’apparenza di un ordine sociale consolidato, dall’altro l’abominio dentro le case avvolto da uno strato di nebbia che ne copre il portato alla vista, che la cosiddetta rispettabilità non vuole nemmeno conoscere, non nei termini di scandalo così da marginalizzarne la fenomenologia sottesa, ma elevando l’ipocrisia a modello cardine degli attuali agglomerati sociali. Si omette di vedere ma si giudica ogni deviazione dal consueto della normazione borghese, deviazione che potrebbe rompere l’incantesimo della paralisi analitica della polis, su cui il sistema si regge e consolida.

La fuga di Marthe romperà questo incantesimo, il suo amore per un essere ignobile la rende persino eversiva. Ma paradossalmente sarà proprio per questa rottura dell’ordine costituito che Hubert riesce a scorgere in Marthe la sua innocenza, la purezza del gesto che va contro ogni convenzione auspicata. Quando ci si aspetterebbe biasimo, condanna, Hubert invece segue questa donna nel suo destino perché ne intuisce quel barlume di libertà, le giustifica quell’atto di generosità inverosimile per un suo simile braccato e sfortunato nella vita. Si tratta in distanza di un sentimento che si definisce all’ultimo, per cui la premessa già consisteva nel perdono come fondamento primario dell’amore possibile.

Libro magistrale, scritto senza virtuosismi letterari come è solito Simenon, ma pregno di una acutezza e accuratezza nell’analisi psicologica e sociologica che fa di questo scrittore uno dei più grandi di sempre.

Marcello Chinca Hosch

Recensione al libro Il signor Cardinaud di Georges Simenon, Adelphi, traduzione di Sergio Arecco, 2020, pagg. 136, euro 16.

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