“Se prima o poi facessi parte di una scuola, vorrei che fosse l’invisibile scuola di mio padre, secondo la quale si riesce a vedere il sublime in una merda di bufalo. Il sublime è ovunque”.
È in libreria Il giardiniere e la morte di Georgi Gospodinov (Voland 2025, pp. 208, € 19,00 con traduzione di Giuseppe Dell’Agata).
Georgi Gospodinov, è oggi la voce più autorevole e raffinata della letteratura bulgara contemporanea. Ha conquistato pubblico e critica fin dal suo straordinario esordio con Romanzo naturale, vincitore del prestigioso premio Razvitie, tradotto in diciannove lingue. È stato finalista e vincitore del Premio Strega Europeo con i romanzi Fisica della malinconia e Cronorifugio.
L’autore ci dona una storia intensa e universale, che parla direttamente al cuore: quanto di ciò che siamo dobbiamo ai nostri padri? Quanto della loro vita resta intrecciato alla nostra? In questo romanzo profondo e struggente, Georgi Gospodinov racconta con delicata maestria il viaggio emotivo di un figlio accanto al padre durante una lunga e crudele malattia. È un percorso intimo che si apre lentamente, attraverso ricordi vivi e quotidiani: il padre intento a curare il giardino, le piante da frutto, i fiori, gesti semplici che diventano simboli eterni d’amore e di cura.
O attraverso la crudeltà dell’apprensione: “A settantanove anni si prendeva cura di un enorme giardino, con ortaggi, alberi da frutto e fiori. C’era di tutto – pomodori, peperoni, patate, granturco, fragole, peonie, rose, tulipani, alberelli. Piantava, sarchiava, innaffiava, zappava, spruzzava, legava… Lo supplicavamo di smettere, o almeno di diminuire un po’ il lavoro. Ricordo che di nuovo allora, vicini a quell’ultima rosa ottobrina di un lilla chiaro, gli dissi che se avesse proseguito così e non fosse andato dal medico, sarebbe caduto di colpo e il giardino si sarebbe coperto di erbacce davanti ai suoi occhi. È strano che razza di parole il tempo, la sorte o come vogliamo chiamare quella cosa lì, celata nel futuro, ci mette nelle orecchie. Oggi vedo tutta la crudeltà differita contenuta nella mia frase.”
Si esplora il senso della sofferenza: “La gente pensa che in questi ultimi giorni di vita si dicano le parole più sagge, si lascino insegnamenti, si parli dell’essenza stessa delle cose… Ma il dolore disperde un po’ tutto. Dopo i pannoloni, i cerotti con gli oppiacei, le pasticche che ti assopiscono, le emorragie sulle lenzuola, non c’è verso di riflettere in modo saggio e gradevole sul mondo. Talora penso che il dolore, il più concreto dolore fisico, venga inviato per facilitare la separazione dal mondo.”
Ma il racconto non si ferma al confine di un giardino familiare; pian piano si allarga fino a comprendere i vicini, i conoscenti, e tutta una Bulgaria dignitosa nella sua povertà. Perché ogni vita, ci insegna Gospodinov, racchiude mille altre vite. E quando i nostri padri se ne vanno, con loro svanisce un mondo intero.
Carlo Tortarolo
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Mio padre era giardiniere. Ora è giardino.
Non so da dove cominciare. Che questo sia l’inizio. Si parla di fine, ovvio, ma da dove comincia la fine?
Forse mi son pisciato sotto, disse mio padre sulla soglia. Stava nel riquadro della porta d’ingresso, angosciosamente dimagrito, un po’ ingobbito, quell’ingobbimento tipico delle persone alte. Lo avevano portato tardi la sera prima, proprio alla fine di novembre. Aveva viaggiato per trecento chilometri sdraiato sul sedile posteriore in modo da attenuargli un po’ il dolore. Ero riuscito a fissargli na visita per il giorno successivo.
Mi son pisciato sotto, ripeté, come un bambino che si senta colpevole e con quella sua tipica autoironia, ci copriamo di ridicolo diventando vecchi.
Va tutto bene, dissi, e cominciammo a cambiare i vestiti in corridoio, chiudendo la porta del soggiorno.
Ho paura, mi disse piano all’orecchio mia figlia a un certo punto. Adesso mi rendo conto che lei lo aveva capito per prima.
Io ancora non sapevo, non volevo sapere.
Lasciatemi dire da subito che alla fine di questo libro l’eroe muore. Neppure alla fine, già a metà, ma poi è di nuovo vivo, in tutte le storie di prima che se ne andasse o anche dopo. Perché, come diceva Gaustìn, nel passato il tempo non va in un’unica direzione.
Da piccolo sceglievo dalla biblioteca solo i libri scritti in prima persona, perché sapevo che lì l’eroe non sarebbe morto.
Eh, questo libro è scritto in prima persona, benché il suo eroe autentico muoia. Sopravvivono solo i narratori di storie, ma anche loro un giorno moriranno.
Solo le storie sopravvivono.
E il giardino che mio padre aveva piantato prima di andarsene.
Di sicuro è per questo che raccontiamo. Per creare un altro corridoio parallelo, nel quale il mondo e tutti quelli che lo abitano siano al loro posto, per deviare il racconto in un’altra aiuola, quando si affronta il pericolo e la morte deborda, come il giardiniere devia l’acqua sulla vicina aiuola dell’orto.
Vorrei che in queste pagine ci sia luce, una luce pomeridiana e morbida. Questo non è un libro sulla morte, ma sulla malinconia per la vita che se ne va.
C’è una differenza. Malinconia per il suo favo di miele, ma anche per le cellette vuote di quel favo, ancora più forte nei loro confronti. Malinconia per quel favo che ci ricorda le candele di cera mentre finiscono di ardere nelle nostre mani.
Niente di grave, come diceva lui.