C’è una stagione dell’anima che segna un momento che ogni figlio prima o poi si trova ad affrontare: il declino di un genitore. Un momento che il cuore cerca di rimandare fino all’inevitabile condizione in cui la fine arriva prendendoci comunque alla sprovvista. Non si è mai pronti a quel dolore.
Il giardiniere e la morte di Georgi Gospodinov (Voland, 2025, 208 pagine, 18,05 euro) è la narrazione sussurrata di una profonda assenza; è una confessione fatta sottovoce, il tentativo di bloccare il tempo e di rivivere ciò che la vita ad un certo punto toglie per sempre.
In questo romanzo si assiste allo smarrimento lento e inesorabile dell’autorità paterna e alla silenziosa metamorfosi del figlio che diventa custode, radice, eco. Gospodinov ci presenta suo padre attraverso frammenti della loro vita, alternando momenti estremamente dolorosi ad altri più leggeri, restituendo al lettore un’immagine nitida della sua esistenza e del loro rapporto.
Il dolore si fa spazio quando Gospodinov pensa al futuro senza suo padre, agli appuntamenti mancati della vita, ai nipoti che cresceranno senza di lui e i pronipoti che non lo ricorderanno.
“La morte è un ciliegio che matura senza di te.”
Lo sguardo si posa su quell’albero di ciliegio piantato tre anni prima, che ancora non ha dato i suoi frutti e che suo padre non assaggerà mai. Diventa struggente la mancanza che ricopre il futuro con una coltre opaca e priva di colore.
L’autore, con una scrittura evocativa fatta di pennellate leggere, dipinge un uomo che mostra con orgoglio al lettore, e nel farlo lo guarda per l’ultima volta, come se fosse ancora presente, cristallizzandolo in un tempo e in uno spazio eterno in cui potrà sempre tornare quando la sua assenza sarà inaccettabile.
Ci mostra un padre che non si fece mai sporcare dall’ira, la cui voce, lieve e ferma, ripeteva quel “non è nulla di grave” come un antico mantra, in ogni circostanza, sino all’ultimo respiro. Egli seppe coltivare il tempo della sua esistenza con la stessa dedizione con cui accudiva il suo giardino. Un tempo armonioso, scandito dal ritmo immutabile delle stagioni, dal canto della pioggia, dal calore del sole e dai misteri dei solstizi. Era il tempo delle gemme che si schiudono, dei fiori che sbocciano, delle piccole, immense azioni quotidiane. Ogni gesto portava in sé misura e ardore, un amore che non gridava ma bisbigliava, che preferiva il silenzio alle parole: era l’arte antica del prendersi cura. Quello che si ritrova a fare suo figlio, nell’accogliere la sofferenza del padre e nell’accompagnarlo verso i suoi ultimi istanti.
In queste immagini l’autore si specchia: sbircia nella sua infanzia, ricorda chi è stato e cosa è rimasto in lui di un tempo lontano; si chiede cosa accade quando si spegne l’ultima luce che ci ha visto bambini. Cosa succede quando cade l’ultimo sguardo che ci ha nominati con voce piena d’amore o di rimprovero?
La morte del padre non è soltanto lutto: è il franare di una certezza interiore, la perdita di un punto fermo affettivo e simbolico. A vacillare con la morte del padre è l’identità di un figlio che perde per sempre il volto in cui si è riconosciuto.
La malattia agisce senza pietà per la spietatezza con cui si è accanita su un uomo, distruggendo la sua dignità, prima nel corpo e poi nell’anima. L’autore è sovrastato dall’impotenza nel vedere suo padre decadere: la pelle quasi trasparente, i gesti tremanti, la voce incerta che chiede aiuto e chiede scusa, come se la malattia fosse colpa sua. La malattia diventa il teatro di un’umiliazione ingiusta, e l’amore filiale si colora di rabbia e di tenerezza.
Il padre che un tempo sorreggeva ora chiede di essere sorretto, e il figlio, che raccoglie ogni brandello di dignità, scopre che la prossimità tardiva è forse la più vera. Perché è nella fine che si manifesta la verità dell’amore: non nei giorni luminosi, ma in quelli in cui ci si china, si lava, si attende — in silenzio, nel buio, senza promessa di ritorno.
Il giardiniere e la morte è un’opera che interroga l’essenza stessa dell’identità e dell’affetto. È una riflessione profonda su cosa significhi esserci, sul peso e sulla grazia dell’esserci stati. Leggerlo è come attraversare un giardino in autunno: ogni foglia che cade porta con sé una memoria, e ogni ramo spoglio rivela ciò che la fioritura aveva nascosto. Un libro che lascia nudi, ma mai soli.
Nancy Citro