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Nick Cave, Ghosteen

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Peace will come, a peace will come, a peace will come in time
A time will come, a time will come, a time will come for us

Nick Cave

 

 

 

 

 

 

Ghosteen si apre con Nick Cave che canta dell’ascesa e della caduta, soprattutto della caduta, di Elvis, il re del Rock ’n’Roll, e di un albero che la moglie, la regina, piantò nel loro giardino. L’albero del giardino era una scala, era alto sedici rami, canta Nick Cave, e sul ramo c’era un nido, e nel nido un uccello e l’uccello aveva una sola ala e l’ala una piuma. Poi il re morì e il cuore della regina si spezzò e l’albero cadde a terra con il nido e l’uccello ma la piuma cominciò a ruotare verso l’alto, verso l’alto – upward and upward.

Spinning song s’intitola il brano ed è costruito come un tappeto sonoro rotante perché qui tutto gira, vortica, ruota in una spirale, questa traccia e le altre e la nostra anima, subito trascinata da un movimento ascensionale più forte della forza di gravità. Perché Ghosteen è questo: è lo spazio che si spalanca dopo una caduta e che divide chi precipita da chi deve restare qui, su questa terra. È il tentativo di elaborare in musica e in poesia il lutto. È il canto di un padre che tende la mano al figlio per afferrarlo, al figlio che ora è uno spirito migrante: un cavallo con la criniera di fuoco al galoppo in un campo luminoso (Bright horses).

È inutile girarci intorno: Ghosteen, il diciassettesimo album di Nick Cave and The Bad Seeds, pubblicato in streaming completo e gratuito il 3 ottobre, arriva tre anni dopo Skeleton Tree – un altro albero, questo spoglio e desolato – ma soprattutto arriva quattro anni dopo la morte di Arthur Cave, figlio di Nick e di Susie Bick, precipitato da una scogliera nei pressi di Brighton il 14 luglio del 2015, all’età di quindici anni. Perché è difficile trovare un senso dopo una tragedia così. Ma sebbene a questo mondo ogni cosa sia evidente, ciò non significa che non possiamo credere in qualcosa di superiore. Ghosteen però non è un disco di piena accettazione: è soltanto l’opera di un uomo mortale che continua ad aspettare il figlio nonostante sappia razionalmente che questo figlio non tornerà più. E allora il cavallo di fuoco diventa un treno, il treno delle 5:30 che riporterà a casa il suo ragazzo – But my baby’s coming home now on the 5:30 train. La speranza e la disillusione si alternano, si compenetrano, diventano la stessa identica cosa e sensazione. «La tua anima è un’ancora dalla quale non ho mai chiesto di essere liberato», canta Nick Cave in Waiting for you con la voce che a tratti s’incrina, come spezzata dal pianto. E noi lo vediamo questo padre, lo vediamo perché Ghosteen non è soltanto un disco ma è come un film – ogni traccia una colonna sonora grazie all’apporto di Warren Ellis e della musica ambient-drone – e lo vediamo perché Nick Cave ci ha chiamati. È come se ci avesse invitati, lassù, sulla scogliera, a sostenerci l’un l’altro, a tenere in mano le torce – fiaccole della speranza – ad ascoltare il suo canto, la sua smisurata preghiera. E allora ecco che davanti a noi si apre il cielo e appare una foresta di alberi (Sun forest) dove tutti i fantasmi dei bambini sono radunati. Alcuni sono appesi agli alberi, altri si arrampicano verso il sole, e la voce di Nick Cave diventa la voce del figlio che lo chiama da lassù, che gli dice: «Sono qui accanto a te, cercami nel sole». E a queste parole Nick risponde salpando su una nave galeone (Galleon ship) e il suo sarà insieme, ancora una volta, un volo e una caduta «in profondità nella tua bellezza». Poi con Ghosteen speaks i fantasmi di tutti i ragazzi iniziano a parlare in coro: «Penso che i miei amici si siano radunati qui accanto a me, sono accanto a te, cercami». E potrebbe anche darsi che a essersi radunati intorno al figlio e al padre siano quegli stessi angeli che Nick Cave chiamava al suo cospetto nel brano Into my arms, quando (era il 1997) chiedeva loro di vegliare sulla donna amata. Dopo Leviathan, si chiude il primo disco.

«The songs on the first album are the children» scrive Nick Cave nel suo “The Red Hand files”, la rubrica nella quale, dall’autunno del 2018 risponde ai suoi fan e dove, nel settembre scorso, in risposta a un messaggio di Joe, ha annunciato l’uscita di Ghosteen. «The songs on the second album are their parents». Ghosteen, il brano, è un mantra della durata di 12 minuti: è un “Canto alla durata”, l’accesso a uno spazio sonoro in cui la tragedia è avvenuta ed è ineluttabile e bisogna farci i conti. Lo spirito vagante danza sulla mano di Nick Cave, slowly twirling, twirling all around e poi la scena si sposta e c’è una famiglia di orsi che guarda la TV, e c’è mamma orso e papà orso con il piccolo orso, ma il tempo si dilata e ora il piccolo orso non c’è più perché se n’è andato sulla luna con una barca. La perdita, ancora. Poi, prima dell’ultima traccia, ecco Fireflies, un brano recitato: «Non c’è ordine qui e non c’è via di mezzo. Nulla può essere previsto e nulla può essere pianificato. Una stella è solo il ricordo di una stella. Siamo lucciole che pulsano lentamente, We are here and you are where you are». Non sembra esserci più speranza. Niente tappeti sonori rotanti, qui. Siamo molto vicini a Blackstar di David Bowie. Molto vicini al razionalismo di Magic and Loss di Lou Reed e John Cale.

Ed eccoci giunti alla fine di Ghosteen. È l’una e mezzo di notte e ci manca l’ultima traccia del disco. E l’ultima traccia non poteva che intitolarsi Hollywood. Qui Nick Cave canta di un viaggio verso Malibu per comprarsi una casa sulle colline con una piscina a forma di lacrima. Ma è una fuga ideale dalle proprie ferite perché il viaggio vero è la lunga strada che occorre fare per trovare la pace della mente. It’s a long way to find peace of mind, peace of mind, ripete più volte Nick Cave, consapevole di come la pace della mente sia indispensabile per accettare la morte. Quella del figlio e la propria, che è inevitabile e arriverà. E per provare a farlo, per accettare ciò che è accaduto e che comunque accadrà e accadrà senza scampo, Nick Cave si inginocchia. Davanti a noi, al cospetto del Cielo, si inginocchia sulla scogliera e la sua voce intona una parabola buddista che sintetizza l’intero Ghosteen e il mistero della Vita e della Morte. E al termine di questo brano che dura più di quattordici minuti, negli ultimi secondi la musica sembra riprendere il vortice dell’inizio. È solo un accenno, un’onda sonora che si produce quando la voce di Nick Cave intona l’ultima parola. Come se questa parola fosse un sasso. Un sasso che, come scriveva Claudio Magris, «cade nell’acqua e onde concentriche si allargano sempre più lontano fino a sparire, ma è solo la nostra vista debole che non le scorge più, da qualche parte esse sono; il mare è increspato, forse oltre le colonne d’Ercole».

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