Quasi un’incisione che affiora un po’alla volta dall’oscurità di una lastra brunita a cera; dal buio si compone un’immagine nitida tracciata da una punta acuminata che non si è mai staccata dalla lastra . I versi di questo nuovo lavoro di Gian Piero Stefanoni disegnano i tratti di un’umanità che appare dolente allo sguardo ma illuminata da una lama di luce che attraversa e abita il ‘corpo’ della terra. Lo sguardo non deve incrinare la fede del mondo, – si legge nell’iniziale dichiarazione di poetica – ma rinsaldarla, farla tornare alla luce proprio dove manca: nella carità e nella prossimità, là dove davvero noi solo siamo. Incisione-preghiera: ci si chiede subito, allora, quale sia il limite di demarcazione tra poesia e preghiera. Mi ritornano alla mente i versi di Emily Dickinson: […] A grandi altezze cresce Dio – chi prega / deve scalare orizzonti – così / m’incamminai diretta verso Nord / per incontrare questo Strano Amico” […]. E ancora: […] La preghiera è uno strumento (little implement) che fa sì che gli uomini si protendano verso un luogo dove la presenza è loro negata. È un ponte fatto di parole, teso nella speranza che Egli ascolti (If then He hear). Parole che risuonano con forza anche nelle tensioni dell’animo di un poeta come Stefanoni , non addomesticato alle inquietudini, proteso a dare corpo e parola a tutto ciò che l’essere umano sente, vive, ad una scrittura preceduta dall’ascolto intimo e dal frastuono del mondo, priva di pietismi, che rifiuta il registro tragico e il virtuosismo formale, sostituiti da un profondo senso di responsabilità etica e civile, quello della “cura”: Siamo quasi arrivati /ma abbiamo smesso di andare /mentre scendeva la luce sulla terra./Così se non trovi l’infezione/cura lo stesso, nel limite dell’amore,/ nel tema degli occhi./Quest’anima sei tu, l’elemento/ tagliato, la variante che nessuno/considera nel compagno lasciato /solo – noi di qua lui di là -/nel tuo povero tempio.
Oggi abbiamo bisogno di poesia “ in carne e ossa”, come diceva Giovanni Raboni, di una parola poetica che ha il compito di sottoporre il lettore ad una riflessione sociale ed emotiva, cercando di scavare a fondo il proprio io per condividerlo. L’autore sente la necessità, prima che il lettore s’immerga nel suo “io lirico”, di offrirgli la sua dichiarazione poetica perché possa essere ritrovata , in prospettiva cognitiva, filosofica, antropologica , etica , nella tessitura dei versi: È la politica del gesto/ che fa il frammento, il mondo /che si percepisce al suo passo,/l’ordine della poesia nella preghiera./ Ambisce alle mani, non bada ai volti /l’entrata in casa della terra, /la memoria del versetto nell’unione delle dita. Di tale dichiarazione, inoltre, non può non tener conto chi si appresta a scrivere una recensione ,affinchè possa rivolgere il suo sguardo, al di là delle combinazioni fonico- ritmiche e figure retoriche( di cui i manuali di grammatica e letteratura sono ricchi e di cui la poesia, per essere tale, non può fare a meno), alla struttura teleologica , ad una dichiarazione di congruenza che , legittimamente, può essere identificata . La poesia di Stefanoni si configura come “parola grata”, gesto di stupore ma anche servizio, inteso come atto di trovare parole che aiutino a leggere il mistero della vita e orientino la nostra società verso la fraternità universale. Rimettere le parole al centro delle cose è un suo imperativo. Privilegiare la parola rispetto alla visione. La parola è creatrice: separa, distingue, ordina. L’uso della lingua, nei suoi significati polisemici, nel suo potenziale semantico usato come gioco di rimandi speculari, diventa un tema poetico almeno quanto l’oggetto dei versi. Una comunicazione che crea ponti, favorisce l’incontro e il dialogo, riesce a stabilire connessioni con altre parole poetiche in cui l’autore avverte lo stesso suo respiro, lo stesso suo tormento: Mahmud Darwish, Czesław Miłosz , Plinio Perilli, Gaston Bachelard, H W. Auden il cui vitale sentire, lo scorrere esistenziale è ripreso in “Danza finché cadi”: Su questa terra dove è stato posto il pozzo/nel punto esatto dove il padre non ha potuto frenare/come stelle perturbate all’approdo/ ruotiamo attorno nell’ignoto della riserva/dentro quel grido che a quell’abisso ci chiama./Danza finché cade nel sabato, nella rimessa/ogni sette giorni del fango, l’oscurità rivelata dal volto,/il silenzio delle statue nella bocca dei piccoli.
Questa corrispondenza artistica sembra non trovare la sua ragione d’essere in una pura condivisione sentimentale ed intellettuale, ma è anche la manifestazione esplicita ed evidente della grande importanza che l’autore attribuisce alla riflessione meta-artistica e meta-poetica. Se la poesia è vita, bisognerà saper cogliere altre armonie vitali, intravedere nuove luci, altre dimensioni individuali e collettive per un nuovo luminoso umanesimo. Non è forse un atto di speranza per il nostro destino futuro, proprio mentre si profilano all’orizzonte della storia nuove oscurità? Anche di fronte ad una società gretta e materialista, piuttosto che smarrirsi nel buio di questi tempi, il poeta preferisce affondare nell’humus di una terra da cui possono nascere nuovi fiori, evocando sensibilmente, misticamente un’ancora di salvezza con tutta l’anima di un uomo che soffre ma non ha smesso di amare, desiderare, sognare : Il fiore non ha lastre,/ non ha nebbia, chiaro/l’odore nel riflesso/composito della radice./ Sciolta alla trasparenza/della terra, la luce/nella forma dello stelo. Se non comprendiamo fino in fondo l’interconnessione, l’interdipendenza di tutti i fenomeni e di tutti gli esseri viventi, non possiamo salvarci. Per riconoscerci parte dell’universo bisogna essere vicini alla terra, amarla ,respirarla: Adesso si fa baciare la cara terra di oggi./Ha figura di vecchia senza più scudo/né cosmo, libera allo scambio,/ alla parola che viene dal mattino./Sempre feconda sempre possibile/ nella parte di sole – nella riserva/di fiato a te serbata – respirala,/ accoglila come lei ti accoglie/rimessa alle statue, offerta al latte.
La germinazione semantica avviene probabilmente su un terreno pre-linguistico ed è proprio in questo passaggio, in questa transizione dall’identificazione pre-linguistica alla relazione simbolica, che nasce e si articola la poetica di Stefanoni. Il cielo va contemplato, interrogato; alzare lo sguardo in una notte buia è un gesto iscritto dentro di noi, comune a tutti gli esseri fin dai tempi primitivi. Sembra che abbiamo smesso di “desiderare”: un verbo che non a caso rimanda alle stelle (dal latino de-sidera). Eppure, non possiamo farne a meno perché sentiamo forte la mancanza di qualcosa più grande di noi. È questo il messaggio più forte di questa raccolta: Sa da dove il frutto/è fatto opera, di quale annuncio,/di quale scaglie l’ombra ora riluce/nello strappo di vita delle forme./Sa per femminile trasparenza/la visione dell’ultimo nato,/sul ramo la costanza del cielo che non cede.
Rossella Nicolò
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Gian Piero Stefanoni, La costanza del cielo, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2024