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Giorgia Tribuiani. Padri

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Inizia con una chiave che non gira nella serratura, Padri, il nuovo romanzo di Giorgia Tribuiani. L’uomo che tiene in mano la chiave si chiama Diego Valli, e fino al giorno prima aveva una moglie, una casa, soprattutto aveva un figlio, Oscar, di otto anni. Tutto questo, appunto, fino al giorno prima. Quello dopo la casa c’è ancora, ma ci abitano altri, la moglie è morta e suo figlio è un uomo fatto, di diversi anni più grande di lui. Sono passati più di quarant’anni, dunque, e Diego Valli è tornato indietro dalla terra dei morti. Del trapasso non conserva memoria, per lui ogni cosa è ancora ferma a un tempo ormai perduto.

Va subito detto che l’intenzione del romanzo non è quella di far luce sul mistero di come o perché Diego sia ritornato in vita. Il centro del racconto è da un’altra parte, in un punto più delicato e profondo. Si smette mai di essere padri? Si smette mai di essere figli? In queste due domande, che in qualche modo sono una sola domanda, è racchiuso il significato vero della vicenda.

Il ritorno di Diego sconvolge gli equilibri già fragili della famiglia Valli. Per Oscar quel padre ritrovato, insperato, è una seconda possibilità. Per sua moglie Clara, invece, è solo un impostore. I dissapori che già da tempo avvelenano la coppia ne escono esasperati, tra i due si crea un’immediata tensione che va crescendo pagina dopo pagina. Nel mezzo, tra padre e madre, c’è Gaia, studentessa fuori sede a Roma che proprio in quei giorni rientra a casa per le vacanze. In una logica di schieramenti, per così dire, Gaia si posiziona immediatamente dalla parte del padre, accetta senza grandi scosse il ritorno del nonno. Anche per lei, in fondo, quell’uomo è una seconda possibilità. Attraverso di lui, forse, riuscirà a conoscere davvero suo padre, a parlare con lui, a sentirsi riconosciuta, amata.

Ciò che Oscar sperava di trovare è una guida, la presenza paterna che tanto gli è mancata. Ma scoprirà che c’è differenza tra guardare le cose con gli occhi di un bambino e farlo invece con quelli di un adulto. Per molti, moltissimi anni, ne ha conservato un’immagine idealizzata, lo sguardo semplice e senza grandi sfumature di un bambino che ha perduto il padre troppo presto. Quello che ha davanti adesso è un uomo complesso, addolorato, sicuramente imperfetto, e forse un confronto non è più possibile né necessario, tocca solo accettarsi, perdonarsi.

Totalmente concentrato sui quattro personaggi principali – quelli di contorno sono appena delle apparizioni -, Padri assomiglia ad una danza. Si susseguono avvicinamenti e allontanamenti, tentativi di comunicazione che alle volte riescono e più spesso no. Una storia minima, senza grandi rivolgimenti, tutto – o quasi tutto – accade nello spazio intimo del pensiero, nei piccoli sobbalzi e nei grandi dolori dei protagonisti. Quello che Giorgia Tribuiani mette in scena è minuscolo universo di sentimenti confusi, di frasi dette a metà, di desideri taciuti, in cui ognuno cerca di sopravvivere come può alla vita che gli cade addosso. Ogni cosa avviene come un sussurro eppure al lettore arriva con la potenza di un urlo. E il merito va tutto alla bravura dell’autrice, a quella capacità di entrare nei pensieri dei personaggi, di imitarne la voce interiore, muovendosi sinuosa da l’uno all’altro, con una prosa ricca, che sa farsi alta e bassa, ora vicina al parlato quotidiano ora impennata verso un lirismo mai stucchevole.

A questa terza uscita, dopo i notevolissimi Guasti e Blu, Giorgia Tribuiani si conferma come una delle voci più interessanti e solide della sua generazione. Padri è un romanzo ipnotico, delicato. Splendido.

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Giorgia Tribuiani, Padri, Fazi, 2022, 256 pagine, 16 euro

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