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Giovanna Albi anteprima. Il castello di carte

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Entrare in questo Il castello di carte di Giovanna Albi – in uscita da Di Felice Editore – equivale a fare l’ingresso in un labirinto, o quanto meno in un percorso di lettura che trova nella stratificazione e nell’intreccio dei piani narrativi una cifra stilistica determinante, benché non unica.

A partire dall’incipit, che immerge immediatamente nell’avvicinamento dell’ “altro” che è Chiara – e della nebulosa di “altri” che a lei si ricollega – la pratica della memoria si fa chiave per mettere in moto la macchina dell’introspezione e della gestione psicologica del sé, ma anche viaggio nella storia personale, che diventa allo stesso tempo esperienza letteraria. È quanto fa la protagonista, Chiara, ed è quanto fa l’io narrante, in un continuo scivolare di punti di vista che rende questo Il castello di carte un testo – non facilmente inscrivibile in comode categorie – “corale”, alimentato com’è da un affascinante proliferare di spunti narrativi. Il percorso esistenziale di Chiara, la cui dimensione psicologica è tratteggiata dall’autrice con estrema raffinatezza – oltre che competenza in materia -, assume l’aspetto di un “modello” in cui è possibile identificarsi facilmente, cogliendo le singole risonanze che possono nascere in ogni lettore. Conflitto con il reale, inadeguatezza, disillusione, aneliti esistenziali, sono queste e altre le dimensioni dell’essere con cui la protagonista si trova a fare i conti, nel tentativo di riuscire a interloquire con il mondo e, anche, senza trovare ascolto. Con coraggio, Chiara affronta il labirinto della crisi apertamente, in tutta la sua complessità e profondità, mantenendo dritto il timone, alla ricerca di una via d’uscita. Il castello di carta non è, semplicemente un romanzo né semplicemente un racconto: è una sfida intellettuale in grado di coinvolgere “davvero” il lettore, chiamato a non rimanere semplicemente uno “spettatore” ma, di volta in volta, a identificarsi con questo o quel personaggio, uomo o donna che sia, perché ciò vi si narra può agire da specchio nei suoi confronti. La biografia, le vicende della vita di Chiara sono la biografia e le vicende di molte donne, come lo sono quelle del compagno, o del figlio, o degli amici e delle amcihe, dei suoi amanti e dei suoi genitori. Delizioso è anche il piccolo compendio delle principali tipologie di maschio – da l’uomo Achille all’uomo don Abbondio – di cui riportiamo qui un etratto. Il tutto all’insegna della scrittura, che con Giovanna albi assume tutto il suo peso come strumento di indagine e di cura.

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L’uomo Achille

Se c’è un uomo che tutte le donne vorrebbero, quello è Achille.

Questo l’ho avuto io e, visto che ne porto ancora l’orgoglio, non intendo nella maniera più assoluta regalarlo a Chiara o a chicchessia.

Nel mondo attuale Achille non sarebbe solo un irascibile che avrebbe fatto meglio a spaccare legna ad abundantiam per scaricare l’ira, anziché sollevare il casino che ha sollevato, ma un autentico pazzo: lui ama la donna altrui. E la ama al punto da rischiare il rapporto coniugale. Questo talvolta capita, ma solo quando la donna è giovanissima e l’uomo vicino alla senescenza. Il mio Achille mi amò quando io ero trentacinquenne e lui quarantenne, e mi amò così intensamente da mettermi in cima alla lista delle priorità.

Mi amò in un periodo buio della mia vita. Quando mai ne ho avuti di luminosi! Quando io girovagavo sei ore al giorno ossessionata dalla vecchiaia e dal tentativo di fuggire il tempo passato, in una corsa insana, perché il passato ci sta sempre alle calcagna e più ti muovi, più ti viene dietro. Ebbene, un pomeriggio di sole, io ero aperta al mondo col mio sorriso di perla, i pantaloni che mettevano in rilievo le forme, il solito atteggiamento bislacco. Mi ripetevo sorniona alle mie orecchie filosofiche: “Animum debes mutare, non coelum.” E mi disposi a cambiare. Una mia cara amica mi venne incontro e me lo presentò come uno degli uomini più affascinanti di Perugia. Io non me lo feci scappare. Misi in gioco tutta la mia arte affabulatoria e la seduzione del corpo. Mi toccavo lentamente i capelli che considero patrimonio di pochi. Lo sfidai col sorriso e mi accorsi che Achille non avrebbe retto. Lui mi guardava dritto negli occhi, mi guardava davvero, come un uomo guarda una donna, quando sa che vuole che sia sua. Io notai la totale disponibilità della persona, apertura solare al mondo, la capacità di relazionarsi, la leggerezza dell’Essere, la giocosità e ne fui rapita d’un tratto.

Lui raccontava barzellette di quelle che fanno ridere, non di quelle che racconta l’avvocato che dirige lo studio in cui lavoro, il quale le dimentica in corso d’opera, mentre i tirocinanti non sanno dove posare lo sguardo.

Il mio occhio cadde sui suoi attributi e li vidi gonfi di passione, mi avvicinai con volontà seduttiva e gli diedi un buffetto sulla guancia sinistra occhieggiando. Fu anche una sfida verso la mia amica che aveva un debole per lui senza successo. Mi sentivo giovane e carina.

Il giorno dopo era già nel mio studio, ci baciammo intensamente con la lingua che fece tutti i percorsi più gradevoli attaccati alla macchinetta del caffè che quasi cadde sotto i nostri corpi in tensione. Uscimmo mano nella mano e ci rifugiammo in un hotel di Assisi, dove ci consumammo intensamente e senza risparmio. Ci amavamo e lui voleva fuggire con me sul Tibet, a realizzare il mio sogno.

Anche se diventassi una Titti in fuga da gatto Silvestro, credo che non dimenticherei quel che voglio. Oggi sto bene, sto ricostruendo la mia coscienza felice. Coscienza? Che dico mai? Fummo totalmente incoscienti, ognuno con la propria famiglia, con figli e coniugi e, quando ci risvegliammo dalla follia dell’amplesso, ci ricordammo dopo due ore che eravamo sposati: nessun senso di colpa, ma almeno la spesa!

Ci buttammo nel supermercato più vicino a comprare l’essenziale. Stemmo avvinghiati per tutto il viaggio di ritorno. Lui era rosso in viso ed io farneticavo: Tibet, Osho, Dalai Lama. Lui mise un cd della magica India; i miei chakra si aprirono, vidi vicino a me il maestro di yoga Janander che mi diceva: “Bene fecisti, Achille optimus vir est.” Ero di una felicità nuova, come quando vedi il mondo al rovescio.

Io adoro il mondo al rovescio, mi è sempre piaciuta la frattura con la convenzione e un giorno uscirei a testa in giù se non fossi certa che qualche benpensante telefonerebbe al C.I.M.

Un giorno affittammo una canoa, remammo poco ma ci divertimmo tanto. Il sole s’impossessò dei nostri corpi, i ferormoni si diffondevano padroni di noi e ci unimmo nell’acqua, anche un po’ viscida, del lago. Ci ricordammo di quando avevamo fatto l’amore alle terme all’aperto e mi ero ricoverata all’ospedale di San Casciano per uno sbalzo di pressione. Problema: come giustificare a mio marito il mio ricovero? Gli telefonai: «Amore sono fuori per un convegno, ci vediamo stasera. Un bacio!»

Lui rispose: «No problem, al bimbo ci penso io.» Il senso di colpa entrò lentamente in me come un battello a vapore e poi sempre più profondo rischiando di dicotomizzarsi, se Achille non mi avesse distolta. Firmai il foglio di uscita e ci demmo a una ricca mangiata di pesce di mare, ridendo al pensiero del profumo del lago Orosei e sorseggiando Muller-turgau. Brilli, un pochino, tornammo in macchina e continuammo l’amplesso in un campo di spighe, mentre si allontanavano i ricordi e mi sentivo un leone risvegliato nietzchiano alla settima reincarnazione, pronta a riprendere la strada di casa con questo segreto. Ho amato un Achille. Sarò Polissena o Briseide? La risposta mi rimbalzò inconscia. Una Briseide senz’altro, hai sempre desiderato essere una Geisha, poi non uccide resti mai l’Amore.

E così vissi dentro e fuori la coppia per qualche anno e, mentre Achille diventava sempre più Achille, io sentivo spegnersi la passione, la rintuzzavo facendo l’amore con mio marito, chiedendogli prestazioni più focose. Quando arrivammo all’amplesso con lui sulla lavatrice in centrifuga, lasciai Achille e tornai dentro la coppia come una geisha, almeno in amore.

Che fine fece Achille, vi chiederete?

Ebbene, lui si strappò i capelli dalla disperazione, bevve litri di whisky, camminò per giorni e giorni, dimenticò di pranzare e cenare; un giorno, fuori di sé, mi cercò a casa di mia sorella; era folle d’amore: non aveva il suo Patroclo. Ci impiegò tre anni per smaltire la sbornia. Oggi è un mio amico, pronto a tornare Achille, se solo accennassi, perché lo spirito di Achille non muore mai, anche se Ettore “vince di mille secoli il silenzio”.

Benché abbia avuto un Achille, vorrei essere Chiara; lei scalpita e non vuole uscire dalla mia fantasia. Io ne soffro: è lacerante il distacco. Chiara, noi ci rincontreremo in questa vita, esattamente in questa: farò di te un romanzo.

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