Aprire la recensione con i versi toccanti di Antonia Pozzi non è casuale ma profondamente emblematico. “Chi mi parla non sa / che io ho vissuto un’altra vita…” . Qui emerge l’essenza del romanzo: l’eco potente di un vissuto interiore che si fa parabola sacra, un sogno che, pur svanito, dona senso a ogni giorno che resta. Questo dialogo tra poeta e protagonista getta un ponte tra fiaba e realtà, tra memoria e sacralità del presente.
“Il castello di carte” si presenta come un’opera di largo respiro, una voce letteraria che non si accontenta di raccontare una trama, ma punta a mettere in scena l’anima. È un flusso di coscienza spezzato, frammenti di vita, archetipi, miti rivissuti e reinventati. Chiara non è un personaggio: è esperienza, sogno e attesa. Un sé in movimento, interrogativo, capace di interrogarsi fino al midollo: «Chi sono?».
La protagonista si rifugia in intensi momenti di rivelazione interiore: scene paradigmatiche come quella del treno, del ritorno in Abruzzo, del bagno caldo come rito di purificazione – tutte risonanze di un’anima che ritrova senso nei gesti quotidiani quando diventano simbolici. Le immagini sono potenti: la Chimera che deve morire, le tende che si chiudono e aprono sull’infanzia, il canto degli uccelli che accompagna le epifanie.
La voce di Chiara si nutre di mitologia e Jung, ma con passo personale e critico. Rinnegare la psicoanalisi riduttiva – arsa simbolicamente nel gesto di bruciare il libercolo giallo dell’Astrolabio – è un atto di liberazione dalla semplificazione freudiana. La sua adesione a Jung e agli archetipi (Tiresia, Cassandra, Leucò) diventa una scelta di pluralità, un’affermazione dell’inconscio come spazio vasto e simbolico. In questo senso il romanzo dialoga con la critica femminista post-junghiana.
Al centro del testo risuona la maternità, raccontata con la forza di un rito sacro. Il parto di Papotto diventa un atto di rinascita, un ritorno alla sacralità del corpo femminile, autentico e senza sentimentalismi. Chiara non trasforma la maternità in edulcorazione: la vive nel suo farsi, nel dolore e nella tenerezza, in una continua tensione tra ricordo e futuro.
Le relazioni maschili nel romanzo sono tratteggiate con delicatezza e profondità: dal padre ritrovato in un dialogo sul treno – «eh, sì… la vita fa pace da sé» – al compagno Federico, presenza ferma e amorevole, fino alle figure rifiutate (l’uomo cinico, l’amico narcisista o fingitore). Non sono stereotipi, ma eco dell’interiorità di Chiara, come specchi emotivi che definiscono e riflettono la complessità del più femminile profondo.
Il linguaggio stesso del romanzo è un atto di resistenza: una prosa frammentata, simbolica, plasmatrice di senso, che chiede al lettore non di consumare, ma di attraversare. Non offre verità pronte, ma invita a raccogliere i fili di archetipi, miti, spiritualità orientale, filosofia e poesia – da Pavese a Leopardi, da Vedanta a Osho.
Tutto questo ha la sua icastica manifestazione nell’esperienza interiore enunciata da Chiara e anticipata da Pozzi: un’altra vita vissuta che diventa parabola sacra, un tempo sogno che dona senso all’esistenza. La poesia della Pozzi diventa così una lente per leggere la narrazione: vissuto e poesia si fondono, memoria e desiderio si sovrappongono, dolore e speranza dialogano.
“Chiara” non è un romanzo da leggere distrattamente. È un’opera da esser letta, non osservata. Una sfida a non chiudersi nelle etichette ma ad abbracciare la complessità dell’anima femminile, del mito e del simbolo, del corpo e del sacro. È una scrittura intima, che riappropria la psiche, il rito e il vissuto. Una letteratura come quella di Pozzi: fatta di dolore e resurrezione.
E, benedetta ogni foglia morta del presente, perché serve a piangere “l’altra vita” vissuta, ricca di senso e miracolo.
Francesca Mezzadri