In Limbo. la vita che torna da me: il corpo a corpo fra un autore e ciò che scrive, Giuliano Pavone (Laurana Editore Milano, 128 pagine, euro 10) scrive di come un romanzo viene alla luce, di come ogni passo si muova in un labirinto di suggestioni. Nel narrare descrive il tremore che si sprigiona durante il processo creativo, che vibra alla nascita di ogni parola. Scrivere è fragilità e potenza nello stesso momento. È inseguire ciò che sfugge e sfuggire fantasmi che ci seguono da lontano. Ogni frase è un respiro. Scrivere è attraversare il tempo, rivivere le sensazioni provate nel cammino e ritrovarsi a riascoltare i suoni e risentire gli odori di luoghi che hanno attraversato corpo e mente.
Milano e Taranto, due città impresse nella memoria dell’autore, diventano lo specchio in cui riflette i suoi stati d’animo. Milano, il suo approdo, si svela nei dettagli più discreti: biblioteche polverose e metropolitane che rimbombano come onde invisibili; Taranto è la partenza, piena di contraddizioni. Un porto da cui si allontana ma che ritorna approdo di affetti e contrasti, ogni volta che il cuore trema.
Ogni luogo per lui diviene richiamo, a volte urlato altre sussurrato; ogni luogo ha dentro di sé ciò che è stato e ciò che tenta di ritornare ad essere, in una rincorsa tra passato e presente.
Ma più di tutto, in Limbo pulsa la sensazione della perdita: lo scorrere inesorabile del tempo: le immagini si dissolvono, insieme alle certezze, tutto sfugge. Per l’autore la scrittura è un modo di tenere insieme le parti, di riappropriarsi del senso profondo delle cose, trovando un ordine nel caos. Pavone svela ciò che si nasconde dietro la creazione letteraria, si sposta tra emozioni e parole, in un atto generoso di condivisione con il lettore.
In Limbo la scrittura si fa memoria viva, un modo per restare, anche quando tutto sembra svanire
Nancy Citro
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Più tardi, arrivando in treno a Milano, reminiscenze degli anni Settanta. Sera, quasi estate, ancora luce. I binari attraversano la città che dà loro le spalle.
Seguono un tragitto come da ingresso di servizio, svelando il retro nudo dei palazzi che affacciano sui cortili e mobili grigi da esterni, contenenti scarpe da tennis e scope, sui balconcini secondari. L’aria umida, densa, un odore d’erba bagnata in un giardinetto liso, vicino a una fontanella a drago verde con lo stemma della città. Emergono, come nebbia bassa, scuole prefabbricate nei parchi, biblioteche a mattoncini, orologi in cima ai pali che segnano l’ora elettrica. Decoro comunale. Echi di afflati comunitari.
Lo spazio ha una concretezza surreale. Silenzio da dopo bomba. È l’ora in cui molti sono in casa a mangiare e in cui anche chi è in giro viene avvolto in una specie di bolla che lo rende semitrasparente e silenzioso. Un momento, fugace ma ben percettibile, in cui Milano osserva una pausa pensosa, una specie di attesa senza oggetto. Si coglie quel senso di sospensione un po’ straniante di quando qualcuno formula una domanda senza darle un’intonazione interrogativa. La città sospira, prende fiato dopo una calda giornata di sole. Ingresso al ralenti in una Stazione Centrale immobile.
Ora, sceso dal treno, attraverso il grande scalo ferroviario milanese e lo vedo stratiforme, come nei diorami di certi musei, in cui gli elementi della scena rappresentata appaiono o scompaiono in base all’epoca selezionata. Scompaiono il museo delle cere e il gran caffè decadente dell’atrio al livello dei binari. Appare il presente, che è glabro e inodore. Il grande edificio di epoca fascista è stato sventrato per crearvi un intestino scintillante e asettico: dove scale mobili una volta collegavano direttamente il piano terra ai treni, ora si srotolano centinaia di metri lineari di negozi ricavati in più livelli, collegati da tapis roulant a pendenza quasi nulla.
Solo inoltrandosi lungo i binari, dove il pavimento a mattonelle lisce e scure e la rete brunita della grande galleria metallica restituiscono alla Stazione il suo originario piglio novecentesco – scatto del diorama – solo allora torna il familiare puzzo di piscio, unito a quello di tessuto sporco, linoleum opaco e finta pelle delle vecchie carrozze a scompartimento.
Ed ecco che la Stazione torna un postaccio, più vuoto e buio di adesso, in coerenza con la gente che la attraversava, dai denti più gialli e storti, con corpi meno gommosi e sani, e invece più irsuti. Il passato era pieno di peli, e nessuno si sognava di rasarli. Un posto, la Stazione, che richiedeva nella gente perbene un processo di purificazione, un lavaggio rituale oltre che materiale, che si compieva nell’albergo diurno, situato in posizione limbica, leggermente sotterranea, nel punto esatto in cui la stazione ferroviaria diventava la stazione della Metropolitana. A pochi passi da lì, un uomo, con dei complici in incognito, cercava di spillare soldi ai forestieri con il gioco delle tre carte.
Le voci degli annunci di partenze, ritardi o variazioni oggi sono umanamente automatiche. Parole o spezzoni di frasi pronunciati da un timbro caldo e impostato, assemblati attraverso un software in base al bisogno del momento. Parole registrate una sola volta e poi ripetute e combinate all’infinito, un’esitazione cadenzata a separare i diversi blocchetti.
Prima invece gli annunci erano letti da una vera voce umana. Una donna, invisibile ma in carne e ossa, di volta in volta leggeva la frase opportuna che qualcuno doveva averle trasmesso. Paradossalmente, era proprio la sua verità a renderla inumana, perché alienata dalla ripetitività del suo lavoro. La voce, nasale e cantilenante, echeggiava nelle enormi campate della cattedrale laica in stile eclettico. Un birignao da radiotaxi, sfinito e sfinente, un credibile benvenuto a Milano.
Quale faccia si nascondeva dietro la voce della Stazione Centrale di Milano? Non possiamo saperlo. O forse la risposta giusta è: nessuna. Forse quella era in senso stretto la voce della Stazione Centrale. Non una donna nascosta fra muri spessi rivestiti di marmo, che salmodiava davanti a un microfono in stile Eiar, ma la Stazione stessa che parlava. E quella stanca indifferenza alle cose umane, quel ristagnare fioco delle sillabe finali, l’immutabile e altalenante spartito con cui scandiva ciascun annuncio, erano il disincanto di chi aveva visto tutto dall’inizio, di chi si era fatto attraversare in quasi un secolo da infiniti spezzoni di umanità, tanto da farsi un po’ umana anche lei. Da quando la Stazione ha smesso di essere una stazione per trasformarsi in un centro commerciale da cui partono e arrivano dei treni, da quando ha perso la sua anima, ha perso anche la sua voce. Le hanno messo il playback.