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Giulio Milani. Codice Canalini. Ingrate patrie lettere!

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Massimo Canalini è morto, viva Massimo Canalini! Giusto, sacrosanto.

Ma chi è o meglio, chi è stato e cosa ha significato per le nostre patrie lettere questo editore, editor, padre padrone, genio marchigiano?

Perché non bisogna dimenticarlo: di letteratura, nello specifico di narrativa, parleremo. Più esattamente di chi, in qualità di editor, cura i testi degli autori. E accenneremo a una stagione letteraria particolare, qual è stata quella che degli anni Ottanta porta a fine secolo novecentesco.

Circa quarant’anni addietro, quindi.

Quando la letteratura contava ancora qualcosa e alle innovazioni stilistiche e contenutistiche si puntava come a una continua rinascita dell’arte scrittoria.

Massimo Canalini è stato in quel periodo uno degli elementi produttivi di una rinascita narrativa italiana, rispetto alle acque stagne di una tradizione molto paludata, ma oramai improduttiva.

Una tradizione cui Pier Vittorio Tondelli, facendo un nome fra i pochi, aveva cercato di dare una svecchiata. Ma non proiettiamoci troppo in avanti.

Restiamo su Canalini e sul suo essere un genio col passare del tempo sempre più sregolato, capace di scoprire e formare narratori che hanno fatto la storia recente della nostra editoria.

Anche e soprattutto di questo parla Giulio Milani in Codice Canalini, un instant book uscito proprio a ridosso della scomparsa, avvenuta nel settembre del 2024, di quello che è difficile indicare solo come editor di una piccola realtà marchigiana.

A Canalini si deve infatti la creazione nel 1987 della casa editrice Transeuropa, nata come costola di un altro marchio, Il lavoro editoriale, ma proiettata da subito verso il mondo dei giovani narratori.

Un libro nato velocemente, Codice Canalini. Ingrate patrie lettere!, ma con l’intenzione di non essere un lungo, estenuato coccodrillo redazionale.

Al suo interno, insieme al racconto (auto)biografico-non-agiografico steso da Milani, dettato dalla contiguità dichiarata con lo stesso Canalini, trovano spazio notizie di vario genere mescolate e sostenute dalle dichiarazioni di vari autori e critici.

Sono tutte persone che hanno spartito uno spicchio di percorso con quel gigante d’uomo, carico di un intuito micidiale in campo letterario, ma legato ad alcuni fra i peggiori atteggiamenti che possano albergare nell’essere umano.

Anarchico, lo definisce Milani. Ed è cosa vera, basta però sapersi intendere sul significato di questa parola.

Ma se cerchiamo di non pensare per un attimo all’uomo e all’editor Canalini nel libro troviamo altro.

Dalle pagine del libro di Milani esce fuori la storia, tragica ed epica allo stesso tempo, di una officina culturale provinciale (Ancona, si sa, non è e non era certamente Milano). Un minuscola intrapresa che dà corpo al fenomeno letterario del giovin scrittore di talento, da un’orbita eccentrica rispetto a qulla dell’industria editoriale paludata. Fenomeno che prosegue, amplia e, in un certo senso, canonizza una idea partorita da Pier Vittorio Tondelli.

Tutto nasce proprio dal narratore emiliano.

A lui Canalini proporrà di dar vita al progetto Under 25, ovvero andare a scandagliare nella produzione di autori che l’editoria ufficiale nemmeno pensava potessero esistere, per varie ragioni: perché troppo giovani, perché carenti in competenza stilistica e capacità di produrre narrazioni che potessero interessare.

Tondelli e Canalini portano così alla luce prima di tutto una corrente narrativa che diventa mainstream, quella che potremmo definire “autonarrazione generazionale”. Subito dopo ne dichiarano la capacità di trattare la materia narrativa, in modo forse grezzo, ma certamente nuovo, fresco, interessante.

Qualcosa che fa saltare il banco nei salotti letterari, prima di tutto perché non sono cose che avvengono dentro i salotti letterari, non sono create al loro interno.

È una letteratura che “viene dal basso”, da una generazione troppo giovane, che spesso ha letto altro dai classici, che ascolta altra musica, gioca alla play, vede film improbabili, guarda al mondo con uno sguardo non canonico, non accetta le regole, le buone maniere dei padri.

A queste magnifiche sorti et progressive Milani si aggancia per raccontare non solo un periodo, ma anche un modus operandi e un atteggiamento che Canalini apparecchia verso gli autori con cui lavora.

Una via di mezzo fra l’irretire e il distruggere.

Gli autori paiono più che altro prede catturate al laccio e poi quasi sacrificate sull’altare della narrazione intesa come idealità.

I loro caratteri devono restare succubi o collaborativi o, viceversa, risultare più scaltri dello stesso editor.

Approcci utili per poter resistere ai tour de force cui vengono sottoposti nel creare la loro opera e condensarla in un libro, che siano racconti o romanzo.

Il lavoro di ognuno di loro è infatti costellato da attese infinite, da imposizioni acritiche di intere parti di testo, da manipolazioni dello stesso a loro insaputa.

Da quanto scrive Milani, Canalini è tutto questo. È una specie di mago Merlino capace di miracoli, ma anche una specie di Minotauro che non sente ragioni, da nessuno.

Un dittatore che può portarti lontano, certo, farti diventare un nome da interessante a importante all’interno della narrativa italiana, sicuro. Il dazio che si deve pagare per pensare di avere questo è però pesante.

Così capita a Enrico Brizzi, a Silvia Ballestra, a Romolo Bugaro, ad Angelo Ferracuti, allo stesso Milani e via cantando.

Era un uomo difficile da amare, Massimo Canalini. O, se volete, era facile da odiare.

Perché aveva, per quanto in maniera eterodossa, una idea da portare avanti, costasse quando doveva costare, e lo voleva fare come voleva lui. Quasi una fede, una mission, come la chiamerebbero oggi. Forse una ossessione o una personale follia.

Però sapeva (spesso) come tirar fuori dagli autori il diamante che avevano dentro, come dar loro strumenti utili anche nel futuro. Sapeva vedere, almeno fino a un certo punto del suo percorso, attraverso il testo che gli si proponeva.

Nella prima parte di Codice, Milani mette in scena quel periodo, cerca ragioni e motivazioni per quello che Canalini è stato e ha fatto.

È forse la parte migliore di tutto il libro. Poi c’è una virata sul personale e autobiografico. Si passa dal racconto in cui l’editor maestro cade preda delle spire di una strisciante autodistruzione al racconto della vicinanza al modello, all’aver avuto la vita segnata dal pensiero del grande marchigiano, averne inoltre seguito le orme.

Negli ultimi capitoli si sente la mancanza di un approfondimento corposo su quello che è stato il post Transeuropa, il cosa è accaduto alle altre attività canaliniane in ambito letterario.

Il peccato è però veniale. Perché il libro, come detto all’inizio, si colloca volontariamente fra gli instant.

Si percepisce che è stato scritto con foga e con discreta furia, lasciando libero sfogo a un flusso di notizie, pareri, commenti raccolti dalla memoria personale e da quella collettiva.

Soprattutto, Codice Canalini non può essere altro al di là di quanto leggiamo per il semplice fatto che l’uomo, l’editor, il genio di cui tratta era fondamentalmente imprendibile.

Ancora di più, Massimo Canalini era intrattabile, come tutti i genii. Era preda di una sua personale, privata ossessione riguardante la scrittura, la sua esattezza, la sua completezza. E quando la falena si avvicina alla luce, è perduta.

Sergio Rotino

Recensione del libro Codice Canalini. Ingrate patrie lettere! di Giulio Milani, Transeuropa edizioni 2024, pagg. 281, € 25,00

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