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Giuseppe Fava anteprima. Processo alla Sicilia. Un continente dentro una nazione

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È in libreria Processo alla Sicilia. Un continente dentro una nazione, edito da Zolfo Editore.

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La Sicilia, un continente dentro una nazione. Le chiese più antiche, i monumenti più favolosi, i paesi più miserabili d’Europa, i palazzi più aristocratici, l’infelicità del bisogno e l’onore che sopravvive agli individui, i padri della letteratura e del teatro europei, la gente più paziente, la gente più violenta, la mafia, i delitti, le paure, i nomi più tragici della storia italiana degli ultimi decenni, i problemi sociali più imponenti, una continua lotta feroce, una continua corruzione. E su tutto la ribellione umana al proprio destino. Tutte le cose che, messe insieme, formano l’anima reale e fantasiosa di un popolo.
Questo libro raccoglie in un unico volume le trentacinque inchieste che, nell’estate-autunno 1966, apparvero sulle pagine del quotidiano catanese “La Sicilia”, e composero il capolavoro di denuncia che è il “Processo alla Sicilia”. È il documento dell’anima meridionale: i suoi tormenti e la sua ansia di ascesa civile. Quando leggerete queste pagine, vi sembrerà di riconoscere uomini e cose di questi giorni: nel loro modo di essere siciliani e nel modo di ribellarsi, nel gusto della menzogna, nell’arte della furbizia, nei gesti senza parole… Giuseppe Fava era maestro nel raccontare tutto questo.
Ripubblicando “Processo alla Sicilia” si vuole offrire uno strumento non solo per la nostra memoria ma per indagare il presente di un popolo che nessuno riuscirà mai davvero a processare. 

Claudio e Elena Fava, marzo 2008

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Il viaggio arrivato alla fine: epilogo

La speranza

Il viaggio era finito. Sei mesi attraverso la Sicilia per scoprirne i dolori, i peccati e le speranze, città e luoghi così diversi l’uno dall’altro da sembrare su continenti diversi, esseri umani che non avevano niente di eguale o di comune. Ci sedemmo e l’uomo che era con me e mi aveva accompagnato per tanto tempo mi fece finalmente un suo discorso sulla Sicilia. La conclusione. Era anche lui un uomo del Sud, persino nell’aspetto e nella maniera di pensare. Nonostante tutto sembrava fiero di essere nato e vissuto nel Sud. Indipendentemente da come si esprimeva e da un certo disordine del suo discorso, una cosa pareva tuttavia certa di lui: la sua sincerità. Se errore c’era, era semmai nei suoi sentimenti: troppo amore cioè e troppa speranza, troppo orgoglio di essere un uomo del Sud. Disse:

«Quando la gente ha letto che i funzionari dell’Assemblea regionale guadagnavano un milione di stipendio al mese, ha gridato allo scandalo. Si andava chiedendo: “E perché un milione, due milioni di stipendio al mese?” Ma quando ha letto che a Palma di Montechiaro ed in venti altri paesi non c’era acqua, né fogne, né lavoro, e i bambini giocavano in mezzo allo sterco, con gli occhi mangiati dalle mosche, chi si è scandalizzato? La gente non si indigna più del dolore degli altri esseri umani, si indigna della fortuna. Hai visto ad Agrigento? Da vent’anni quella montagna stava per franare, lo sapevano tutti. Gli italiani non si sono spaventati però della frana, né commossi per quei cinquemila infelici rimasti senza casa, né hanno tremato al pensiero che poteva diventare una strage senza precedenti. L’opinione pubblica di Milano, di Torino, di Genova si è furiosamente ribellata invece quando ha appreso e visto dalle foto che su quella montagna erano state costruite case a dieci o dodici piani.

Non erano addolorati che cinquemila siciliani sarebbero potuti orribilmente morire fra le macerie delle loro case, ma erano offesi che cento siciliani avessero guadagnato un miliardo

o due con la speculazione edilizia. Lo stesso ministro Mancini, fremente d’indignazione, che ha detto al Parlamento? Ha detto che aveva scoperto cose orribili e mostruose nella valle di Agrigento, cioè la corruzione! Nemmeno una sillaba su quella montagna che da vent’anni sarebbe potuta crollare e uccidere cinquemila cittadini. Indignazione e basta: per il resto non accade niente, non cambia niente. La gente legge che un funzionario della Regione ha uno stipendio di un milione al mese e, dopo solo dieci anni, una pensione di mezzo milione.

La gente legge che a Mazzarino dodicimila uomini sono dovuti emigrare per fame negli ultimi cinque anni, o che alcuni deputati tentarono di pagare cento milioni il voto di un altro deputato e tuttora non si sa di chi fossero quei cento milioni e di che genere di reato si tratti. Oppure che a Pozzallo hanno costruito un porto di ferro, una meraviglia dell’ingegneria navale, che però sta già cadendo a pezzi poiché non hanno fatto la barriera frangiflutti. La gente legge tutte queste cose e tuttavia non succede niente, tutto continua ad essere come prima. Ci deve essere dunque qualcosa di sbagliato nella nostra vita, e deve essere un inganno fondamentale. Gli uomini politici possono sbagliare o ingannare, possono essere coinvolti in sperperi scandalosi di denaro pubblico, o commettere errori grotteschi o dilapidazioni: ciononostante essi saranno infallibilmente rieletti.

Attorno ad ognuno di loro si ergono le mura del partito a proteggerlo, e dentro queste mura, come altrettante guardie del corpo, migliaia di complicità, amici sistemati, posti di sottogoverno donati o promessi, sovvenzioni a società sportive, sodalizi ricreativi, istituti di carità e raccomandazioni, impieghi, concessioni per pompe di benzina».

«Vent’anni or sono, subito dopo la guerra, mentre lamiere insanguinate e calcinacci ingombravano ancora le strade, e l’odio e le passioni per le tre o quattro Patrie del tempo erano ancora intatti e furenti, gli italiani conobbero il gusto acre di votare per coloro che meglio rappresentavano gli ideali. Ebbero l’illusione breve d’essere finalmente padroni del loro destino. In realtà non furono tanto gli uomini politici a deludere gli italiani quanto gli italiani, lentamente e oscuramente a corrompere gli uomini politici, a trasformarli in quegli strumenti umani di cui maliziosamente sentivano bisogno per la loro morale privata: uomini ai quali si potevano addossare tutti gli errori della vita pubblica, il disprezzo dei benpensanti, e chiedere però, mille volte, la segreta e personale complicità per i propri interessi. Sono trascorsi decenni dalla fine della guerra e l’anima della nazione si è ingrassata, è divenuta pesante, le bandiere pendono senza vento, il cittadino non vuole tanto una Patria bella ed onorata, quanto il frigorifero od un’auto di buona cilindrata; il protagonista della politica non è più un eroe scarno e povero che propone ideali fiammeggianti di libertà, ma un ragioniere che amministra e propone posti e raccomandazioni, e tiene un registro aggiornato dei suoi elettori, delle licenze di tabaccaio che deve ottenere, degli insegnanti elementari da proteggere al concorso.

Egli tiene l’anima del popolo in un casellario nel quale sono diligentemente catalogate tutte le piccole viltà umane che compongono poi i suoi ventimila voti di preferenza. Egli è come il barone del Medioevo che fondava il suo potere sul bisogno e sulla miserevole ignoranza dei suoi sudditi. Ci sono prove lampanti e le conosce chi ha davvero visto Licata, chi ha visto Palma di Montechiaro, i paesi spopolati dall’emigrazione, le case vuote, le facce dei superstiti, le loro anime morte, le abitazioni senz’acqua da due mesi, le fogne che corrono scoperte al centro della strada, i bambini con gli occhi ammalati, i villaggi dell’Eras deserti, le mosche, il fango, il fetore. Gli abitanti di quel territorio vivono così perché non sono riusciti finora a concentrare i loro voti per eleggere un deputato e di converso non c’è dunque un solo deputato che abbia bisogno dei loro voti. Che vadano allora al diavolo. Hanno persino undici miliardi stanziati dalla Regione e non riescono a spenderli per avere almeno le cose indispensabili alla vita. Da anni infatti, attorno a quel denaro, dura la mischia: ogni uomo politico vorrebbe che fosse speso nel modo più utile per i suoi interessi elettorali. E poiché questi interessi finora non sono sufficientemente garantiti, quei dodici miliardi restano nelle banche e quei centomila siciliani dentro la fogna. Sono come quei contadini di quattrocento o cinquecento anni or sono, che non erano servi o schiavi di alcun barone, e tuttavia non erano nemmeno uomini liberi: erano soli ed abbandonati ad ogni calamità, ai saraceni, alla fame, al freddo ed agli assassini…»

Sul tavolo accanto stavano sparpagliate tutte le fotografie del nostro lungo viaggio. L’uomo ne scelse una che rappresentava una folla. Una folla incredibile, che copriva ogni cosa, persino le cime degli alberi: le centomila persone che avevano devastato il giardino Bellini di Catania per sentir cantare Mina. Continuò:

«Noi però non viviamo più nel Medioevo. Dovremmo essere uomini liberi, almeno nelle coscienze. In realtà la gente avrebbe la possibilità di poter cambiare i governanti incapaci o corrotti: basterebbe ad ogni nuova elezione designare candidati più onesti e competenti. Ma per designare questi candidati la gente dovrebbe essere dentro i partiti; e invece non c’è. Dentro i partiti italiani ci sono solo coloro che hanno bisogno del partito per fare carriera, per ottenere il posto, o perché nella vita non hanno saputo fare altro per appagare le loro ambizioni, né essere un grande medico, un grande ingegnere, un avvocato di trascinante talento. Sai di chi è la colpa di tutto? La colpa è di coloro i quali dicono: “Io sono un galantuomo, sono un cittadino onesto, però non mi metto nei partiti perché ho vergogna!” Così, per vigliaccheria, per egoismo, accettano di essere governati dagli altri i quali sono quelli che sono. Qui al Sud è peggio che altrove, poiché nel Sud l’uomo ha la presunzione di sapere lottare da solo. Più talento egli ha, e più egli diventa un uomo solo, sprezzante verso tutto il resto del mondo. L’autostrada Catania-Palermo, il ponte di Messina, la corruzione, lo sfacelo del pubblico denaro? I villaggi dell’Eras abbandonati alla rovina?

L’uomo del Sud si commuove o s’indigna per un attimo. Poi pensa ai fatti suoi. Gli uomini peggiori, i veri responsabili sono proprio i cittadini i quali hanno la coscienza della loro intransigente onestà e non fanno niente per affermarla. Non hanno coraggio di essere veramente cittadini, di venire avanti a difendere le loro idee e farle valere. Hanno paura di non riuscire, di rimetterci tempo e denaro della loro professione e soprattutto di essere sconfitti».

«In fondo a tutta la tragedia siciliana c’è questo difetto umano, vale a dire l’incapacità dei siciliani ad organizzarsi in una società. Dicono che la mafia dimostri semmai il contrario e questo significa non aver capito niente nemmeno della mafia. In realtà il mafioso è l’uomo più solo che esista: non ha fiducia di nessuno, né amore per nessuno, tranne che per se stesso. Se la situazione cambia, se gli conviene, è disposto a uccidere il suo alleato, oppure a dare i suoi voti politici all’avversario. La verità è che un siciliano ritiene di essere una macchina umana che riesce a funzionare da sola. Al momento in cui tanti individui siciliani formano una società che dovrebbe essere basata soltanto sulla stima reciproca, questa società fallisce. Il fatto stesso che il siciliano sia capace di uccidere chi ha semplicemente violato la verginità della figlia o della sorella, non è che una esasperazione della sua personalità, un’affermazione terribile di esclusività per tutte le cose che egli ritiene gli appartengano. Il suo mondo si riduce così ad una concentrazione orgogliosa dei suoi istinti, affetti ed interessi: il mondo è soltanto la sua casa, il suo posto, il suo pezzo di terra, il grembo della moglie, la medaglietta di deputato, la salute dei figli e il rispetto degli amici. Gli amici – beninteso – che conosce personalmente e di cui è sicuro.

Il resto è zero! Tutto questo dura anche dopo la morte. Hai visto quei piccoli paesi miserabili che hanno però cimiteri fantastici, un groviglio di cappelle e di monumenti? I siciliani morti sono là sotto, sotto quelle pietre superbe che costano più di un appartamento civile, sembra che vogliano continuare a dire: “Io sono questo, con quest’angelo alato in cima, io sono più forte e più bello degli altri!” Entro i confini del suo personale interesse alla vita il siciliano è un’isola al centro dell’immenso fiume umano: da questa posizione immobile egli guarda tutto il mondo che gli fluisce intorno e non se ne cura se non per maturare dei sentimenti per gli altri, la pietà, la collera, il disprezzo, l’amore… Ma sono sentimenti suoi, anche questi gli appartengono come monete e non lo legano con nessun altro, egli può cambiarli o spenderli senza dar conto a nessuno. Ecco perché i siciliani sono spesso dei vinti. Essi affrontano la vita da soli e la vita li schiaccia. Per tentare di vincere o più semplicemente di sopravvivere debbono andarsene dalla Sicilia, cioè debbono arrendersi, accettare regole e misure umane che non sono le loro. Debbono cambiare faccia. Se ne vergognano tanto che cercano goffamente di non parlare più nemmeno il loro dialetto. Di tutti gli uomini del Sud essi sono i più infelici. Ma una tragica forza romantica resta intatta dentro di loro. In una maniera o nell’altra un giorno essi cercheranno di tornare quaggiù, anche semplicemente per morire».

L’uomo s’interruppe, guardò sul tavolo quelle duemila fotografie del nostro viaggio, i bambini, le cattedrali, le raffinerie, la gente che dorme accanto agli animali, gli esseri umani uccisi sulle strade di Corleone, le torri di metallo a Priolo. Riprese:

«Negli ultimi anni settecentomila siciliani hanno dovuto abbandonare la terra che non dava più loro da vivere; hanno abbandonato la casa, le vecchie amicizie, i figli, e sono andati ovunque nel mondo a guadagnarsi da vivere. Mandano in patria, ognuno, una media di sessantamila lire al mese, cioè oltre quaranta miliardi al mese. Quattrocento, cinquecento miliardi l’anno; il prezzo del loro sacrificio, della pazienza con cui hanno accettato la loro maniera di vivere e lottare. Sono i soldi con cui le famiglie comperano il cibo, acquistano le case, comperano gli elettrodomestici, il televisore a rate, la motocicletta, e pagano infine anche le tasse. Fate conto che per un anno nell’economia della nazione dovessero improvvisamente mancare questi cinquecento miliardi: fallirebbe metà delle piccole industrie italiane, metà degli stabilimenti che fabbricano carni in scatola, frigoriferi, scooter, tondini per l’edilizia, vestiti, scarpe. È sempre la Sicilia che sopporta il peso più amaro e disperato della nazione. Ci deve pur essere un senso morale in questa miseria che costituisce una così grande forza umana…»

Di tutte le fotografie sul tavolo l’uomo prese quelle di alcuni bambini di Palma di Montechiaro. Ricordava certo quello che avevamo sentito un giorno: che molti di quei bambini cioè avranno una vita di venti anni inferiore alla media, e a guardare loro negli occhi pare che lo sappiano. Disse:

«Il popolo più progredito del mondo è quello svedese. In Svezia hanno raggiunto la perfezione tecnica della vita collettiva, possiedono tutto quello che il corpo umano può desiderare, la casa, le medicine, le dentiere e gli occhiali gratuiti, l’automobile, il posto di lavoro, l’infallibile assistenza medica, persino i collegi ai quali affidare i figli nati fuori dal matrimonio. Sono più colti, più puliti, più longevi. Hanno quasi tutto, ma dentro non gli è rimasto quasi niente. Possono persino fare indiscriminatamente all’amore ed hanno perduto così il piacere di fare veramente all’amore. Se non fosse per la paura della morte non avrebbero nemmeno bisogno di credere in Dio. Hanno appagato finalmente tutti i loro bisogni fisici e si sono però accorti di essere egualmente infelici, poiché credevano che quelli soltanto fossero gli ideali di ogni essere umano ed in realtà non lo erano. I loro giovani si fanno crescere i capelli, picchiano la gente per sadismo, si accoppiano oscenamente sulla pubblica via, si uniscono in bande sempre più numerose, sempre più tristi e sporche: pare vogliano tornare indietro verso la condizione umana più brutale ed elementare per ricominciare daccapo, cioè cercare di riconoscere per istrada alcuni di quegli ideali che avevano disprezzato o abbandonato, poiché non erano nei cataloghi degli elettrodomestici. Il siciliano invece è sull’altra faccia della terra. Dal fondo della sua antica, riconosciuta infelicità viene avanti, lottando ogni giorno ed ognuno lottando per suo conto. Tutti i suoi ideali, l’odio e l’amore, la pietà e la vendetta, sono ancora intatti e spesso confusi e terribili, ma tutti insieme formano una grande anima. E non c’è prezzo di violenza o di dolore ch’essa non sia disposta a pagare, pur di conquistare la sua dignità».

«In verità non c’è in tutta l’Europa un popolo così orgoglioso e infelice, come quello siciliano, che faccia tanto male a se stesso, ma non c’è nemmeno un popolo che abbia tanta devozione alla sua terra, e che abbia altrettanto coraggio di lottare per l’esistenza, e tanta violenza, tanto amore per la vita. Ecco la sua forza: il desiderio intatto e furioso di vivere. E dentro questo desiderio ci sono tutte le cose sbagliate della sua anima: l’avidità, l’ignoranza, la corruzione, il delitto, l’onore sanguinoso, le superstizioni, la convinzione di essere amico personale dei santi e potere insultare Sant’Agata o Santa Rosalia che non lo esaudiscono; e la povertà, l’egoismo, la superbia fanatica; ma c’è anche la sua infinita pazienza al dolore ed il suo terribile bisogno di giustizia. C’è anche la sua intelligenza ineguagliabile, il suo senso morale della morte, cioè il suo ideale che la vita sia sempre l’occasione di lottare per qualcosa. Il siciliano viene vinto continuamente dal mondo, ma mille volte si rialza e continua a lottare. La verità è che egli è vivo come nessun altro e cerca disperatamente nella vita tutte quelle cose che possono dare una ragione alla vita stessa. Questa è la sua speranza: e che gli uomini onesti siano veramente capaci di incontrarsi e unirsi…»

Il discorso di quell’uomo del Sud era finito. Mi accorsi allora che ero solo e che tutte quelle cose io le avevo dette a me stesso!

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