Decisione fatale: “Se c’è da morire, meglio morire liberi che schiavi, disse mia madre fumando una sigaretta. E, dette queste parole, fissò mio padre, fissò me, come se finalmente potesse regolare i conti con noi due. Da quel momento, non pulì più casa, non lavò i nostri vestiti, non cucinò più, tantomeno dedicò parte del suo tempo alla mia persona, occupandosi dei miei più intimi recessi sotto la doccia, addomesticando i miei capelli con il fon, costringendomi a lavarmi i denti prima di andare a letto”.
Teorie sempreverdi: “Certi misteriosi abitanti di lontane galassie, prima di incombere su di noi e occupare il pianeta, si erano premurati di recapitarci quel bigliettino da visita nel cielo, rendendo chiaro fin da subito chi comandava, lasciando presagire l’estinzione della nostra specie”.
Verso l’abisso con sani principi: “È sempre ora di fare i compiti, disse l’assistente sociale guardandomi con un’aria grave. Bisognerebbe fare i compiti fino all’ultimo giorno. Cosa ci definisce oltre i compiti che facciamo e che dovremmo fare? I compiti sono tutto ciò che ci rimane.”
Uno spirito di violenza: “Avevo già stretto i pugni. Ero pronto a saltargli addosso. Ma sentii questa cosa con gli artigli ridestarsi dentro di me, liberando dalle sue cento bocche nere un alito di brace. Muoveva le sue viscide zampe, un attimo ancora e avrebbe spiccato un balzo. Ne ebbi terrore”.
È in libreria Il signore delle acque di Giuseppe Zucco (Nutrimenti 2025, pp. 192, € 18) un romanzo distopico che, attraverso lo sguardo di un bambino, indaga il senso della vita e dello stare insieme in un mondo sull’orlo del collasso.
Giuseppe Zucco (Locri, 1981) lavora in Rai. I suoi racconti sono apparsi su Nuovi Argomenti, Nazione Indiana, minima & moralia, Colla e L’inquieto. Ha esordito nel 2017 con Il cuore è un cane senza nome (minimum fax), dopo aver partecipato all’antologia L’età della febbre (2015). Tra le sue opere successive, Tutti bambini (Egg, 2016) e I poteri forti (NNE, 2021), con cui ha vinto il Premio Ceppo Racconto.
Un fenomeno inspiegabile ha sconvolto la Terra: l’acqua non cade più, ma si accumula nel cielo, trasformandosi in un oceano sospeso. L’umanità è paralizzata, incapace di reagire. Anche i genitori del piccolo protagonista non sanno cosa fare: il padre, in preda al panico, non manda più il figlio a scuola e ordina alla famiglia di chiudersi in casa per affrontare insieme la fine del mondo.
La madre, invece, cerca di mantenere un’apparenza di normalità. Ma presto l’equilibrio si spezza e la situazione precipita: travolti dall’angoscia, i genitori prendono la decisione assurda e disperata di mettere al mondo un altro figlio, proprio mentre tutto sembra destinato a scomparire.
Il bambino, incapace di accettare questa scelta, fugge. Smarrito tra le rovine della città, si ritrova immerso in un’umanità intenta a sopravvivere ma allo sbando, dove l’istinto di sopravvivenza ha spazzato via ogni traccia di pietà. Per il piccolo protagonista, l’unica via d’uscita è ritrovare la strada di casa.
Con uno stile originale e un ritmo ipnotico, Zucco guida il lettore in un viaggio nei recessi della natura umana. Chi siamo quando tutto crolla? Cosa ci unisce quando non abbiamo più nulla? Attraverso la voce di un bambino, Il signore delle acque racconta il momento in cui l’innocenza incontra il caos del mondo.
Carlo Tortarolo
#
Tra tutti i bambini, io fui il primo a puntare gli occhi al cielo e vedere cosa stava montando, ma più che vedere sentii un’enorme onda levarsi su di me.
Subito mi piegai, coprii la testa con le mani, e accovacciato pregai che l’onda non mi facesse a pezzi, sbatacchiandomi sui pali della luce e sulle facciate dei palazzi.
Chiudendo gli occhi, cercai di immaginare mio padre e mia madre, pensando così di infondermi coraggio, ma tutto ciò che ricavai fu quella scena gorgogliante, che aveva anche una sua allegria, io e tutti i bambini come folli capriole nel cuore vorticante di un’onda caduta dal cielo. Le nostre testoline a punteggiare le creste orrende di schiuma bianchissima.
Quella pena durò un secondo o due, perché non vi fu acqua, nessuno scroscio immane si abbatté sulle mie spalle, riaprii le palpebre.
Anche gli altri bambini erano accovacciati a terra con le mani sulla testa, tranne un paio che, rigidi, aggrappati alle catene, erano rimasti seduti assecondando il cigolio meccanico dell’altalena.
Ci fissammo senza dire nulla, senza respirare – un attimo e scattammo via. E se prima eravamo uno stormo di uccelli congelati sullo spiazzo di cemento, dove solo un pallone rimbalzava dimostrando vita, ora zampettavamo caoticamente, disperdendoci da ogni lato, come lepri davanti a un cacciatore.
Arrivai al mio palazzo, suonai, suonai ancora, colpii il portone perché il portone non si apriva, e appena si aprì divorai sette rampe di scale, infilai la porta di casa lasciata aperta, corsi nel corridoio che mi sembrò lunghissimo, e gridai mamma, gridai papà, e non esaurii le grida finché non entrai in cucina e mi furono davanti.
Ma come toccai mia madre, e affondai la faccia nella sua maglietta, ammutolii, e non solo per l’immediata felicità di averla accanto, ma soprattutto per la vergogna, per il dolore perfino, io che davo prova di spavento nonostante avessi ripetuto fino alla nausea che ormai ero grande, che non avevo paura di niente, neanche dei ragazzi della scuola media, i quali, una volta, puntandomi un coltellino contro, mi avevano legato i polsi e le caviglie a un cancello arrugginito.
Mia madre mi mise una mano sulla testa e la tenne lì, freddamente, come se io non fossi io, e la mia testa non fosse la testa di cui aveva sempre avuto cura, visto che era lei a tagliarmi i capelli, cosa che mi ero guardato bene dal dire in giro – gli altri bambini andavano dal barbiere come mio padre, e uno si era già fatto radere certi baffetti, che neanche erano baffetti, ma una cosa un po’ schifosa, come se una fila di grossi ragni pelosi gli camminasse sul labbro superiore.
Così mi staccai da mia madre, feci un passo verso mio padre. A quel punto niente mi impedii di vedere cosa li riuniva, cosa li zittiva, cosa li paralizzava in cucina, e il televisore rapì anche me, bagnandoci tutti con quella luce azzurrina che colava dallo schermo.
Ecco dov’era finita la pioggia che non pioveva da mesi – e lì per lì venni a sapere che invece di cadere giù, com’era naturale, accumulandosi inspiegabilmente, si era bloccata lassù, allagando il cielo, e ora gravitava sulle nostre teste come un mare d’acqua dolce arricciato dalle onde.
Allora, sbiancando e poi riprendendo colore, perché il televisore mi restituì un’immagine pulita e pacificata di quella cosa che montava nel cielo, che era tanto terribile ma anche così bella da guardare, io avrei voluto dire a mio padre e a mia madre che era proprio questo ciò che avevo visto là fuori con gli altri bambini, costringendomi a una ritirata vergognosa dentro casa, ma il giornalista che conduceva la diretta, con una vocina tutta uno squittio, disse incredibile, disse non può essere, disse Dio abbia pietà di noi, e così mi levò ogni parola di bocca.