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Guillaume Apollinaire. Il flâneur di Parigi

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1857 rappresenta uno spartiacque, comunque una data di svolta per la flanerie, “fenomeno” parigino che aveva e avrebbe in seguito prodotto ampia letteratura. In quell’anno, infatti, Napoleone III dà mandato al barone Georges Eugène Haussmann di trasformare Parigi in una moderna metropoli: nel segno della linea retta (il “culto dell’asse”) si aprono i grandi boulevard, vengono “amputati” grandi spazi, bonificati quartieri cadenti e malsani, annessi al tessuto cittadino sobborghi come Auteuil, Villette, Belleville, Grenelle, Passy. Tra il 1853 e il 1870 scompaiono, ingoiati dal risanamento, 117 mila alloggi, ma ne vengono edificati 215 mila, il piano di illuminazione pubblica viene portato a termine e Parigi si può dire un’altra città.

Da quel momento, è possibile parlare di una vecchia Parigi che scompare e di una nuova Parigi che si afferma, di nostalgia per un prima stravolto da un dopo. Approssimativamente, e forse con maggiore peso, però, è un’altra dimensione a segnare – a cavallo di questo evento – una lenta ma inarrestabile trasformazione. Quello che cambia è lo sguardo (sempre, prima di tutto), e con esso lo statuto di flâneur.

Il flâneur non è più, dopo Baudelaire, l’uomo della folla, abbandonato al flusso, alla ricerca di un perdersi, pronto alle sorprese dello smarrimento e della scoperta. È, invece, monade sempre più cosciente dello spazio urbano, e sempre più intrinsecamente ad esso legato, in un rapporto in cui camminare – osservare – scrivere diventano in alcuni casi inscindibili.

È quanto si respira nelle pagine de Il flâneur di Parigi di Guillaume Apollinaire, che nel 1912 lascia con amarezza Auteuil, a cui dedica un Ricordo, declinato tra prima e dopo, tra l’aspetto originario e quello nuovo. La flanerie di Apollinaire si nutre di uno sforzo mnemonico, re-suscitato dall’esplorazione di strade e quartieri di un tempo andato, per poi trasformarsi in tensione poetica, nella nuova città fatta parola. E su questo binario si muove tutto il volumetto, articolato in capitoli come La libreria del signor LehecI quai e le bibliotecheIl convento di rue DouaiUn museo napoleonico sconosciuto: l’incontro definitivo tra testo e città del XX secolo, la coincidenza tra inchiostro, ferro e acciaio.

Intanto, ogni tentativo di ri-evocare e descrivere la città si concretizza – anche – in un’opera di appropriazione/mappatura, in cuipuò confluire tutto ciò che è stato nel tempo e nello spazio: gli incontri o descrizioni di scrittori, poeti e artisti più o meno famosi (Michel Pons, il ristoratore poeta, André Derain, Pierre Mac Orlan che abitava a Ranelagh, Claude Cahun..); i volumi acquistati presso stampatori artigianali; la cantina del signor Vollard, dove passarono Alfred Jarry, Odilon Redon, Maurice De Vlaminck, Pablo Picasso, Aristide Maillol, Bonnard, Derain…

Sono qui i materiali che compongono unitariamente i Calligrammi di Apollinaire (la maggior parte dei quali furono appunto composti nella tipografia di Paul Birault), l’opera che coincide con Parigi: componimenti poetici realizzati in modo da essere letti e guardati allo stesso tempo. In ogni calligramma, infatti, l’autore disegna — utilizzando le lettere che compongono l’opera — un oggetto che rappresenta in maniera evidente un argomento contenuto nel testo poetico. Non a caso, uno dei calligrammi di Apollinaire raffigura la Tour Eiffel, simbolo d’acciaio della nuova Parigi nato con la Grande Esposizione del 1889.

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