Pasolini moriva male. Male, nel senso più fisico e brutale del termine. Ridotto a un “grumo di sangue”, diceva il medico legale. Ma un grumo di sangue non scrive poesie, non gira film e non disturba la morale borghese. Un grumo di sangue tace, finalmente, e fa comodo a tutti.
Ostia, 1 novembre 1975. La notte sa di benzina e sabbia bagnata. Pier Paolo è stanco, ma non abbastanza da smettere di cercare qualcosa — o qualcuno — per sentirsi vivo. Non si diventa il poeta maledetto dell’Italia per bene senza pagare il conto a rate, con gli interessi. E lui quel conto lo sta saldando.
Arriva Pino la Rana, 17 anni e una faccia da ragazzino che ha già visto più polizia che scuola. Ha il sorriso sghembo di chi sa che la vita è una truffa, e l’unico modo per uscirne bene è truffarla a sua volta. Pier Paolo lo osserva. Pino è giovane, Pino è fame, Pino è quella periferia che Pasolini adora e teme allo stesso tempo.
Quella notte finisce in macelleria. Non c’è poesia nei calci in faccia, nei pugni, nelle urla soffocate dalla sabbia. E non c’è nessun Cristo in croce, solo carne pestata e un’Alfa Romeo GT 2000 che fa retromarcia sul corpo di un intellettuale, trasformandolo nell’ennesimo cadavere scomodo.
Il 26 aprile 1976 c’è il processo. Pino è solo, o almeno così decidono i giudici. Un minorenne con qualche furto sulle spalle è perfetto per chiudere la faccenda in fretta. La sentenza è una sintesi perfetta dell’Italia del tempo: “Colpevole. Ma non troppo.”
Il giudice Carlo Moro — fratello di quell’Aldo Moro che finirà rapito e ucciso anche lui, perché gli anni ’70 sono un tritacarne democratico — legge la condanna. Nove anni, sette mesi e dieci giorni. Non per furto, non per atti osceni, ma per aver spezzato la voce più scomoda del Paese.
L’opinione pubblica fa il resto. La stampa infiocchetta la storia come un delitto tra “froci e marchette”, così la borghesia tira un sospiro di sollievo. Pasolini non era un intellettuale perseguitato, no: era solo uno sporco pervertito, finito come meritava.
Il vero miracolo, però, è che Pasolini continua a parlare. Dai libri, dai film, dalle sue interviste piene di rabbia e dolcezza. È morto all’Idroscalo, ma continua a passeggiare per Roma, con lo sguardo triste e la sigaretta tra le dita. E Pino la Rana? Esce di galera, fa qualche comparsata in TV, poi sparisce. Ogni tanto riemerge per raccontare versioni sempre diverse di quella notte. È come se nemmeno lui sapesse più la verità.
Cinquant’anni dopo e Pasolini è ancora lì, steso sulla sabbia umida dell’Idroscalo. Il corpo è stato portato via da un pezzo, ma il fantasma no. Quello rimane. Ogni tanto prova pure a rialzarsi, ma qualcuno gli dà un altro calcio metaforico per rimetterlo giù.
Le ombre intorno a questa storia non sono mai sparite. Anzi, più passa il tempo e più si allungano, come al tramonto. Le carte processuali raccontano una versione comoda e impacchettata per la borghesia benpensante: un frocio ci ha rimesso le penne per colpa di una marchetta finita male. Caso chiuso, tirate giù la serranda.
Ma già all’epoca qualcosa puzza. Gli amici di Pasolini, quelli veri, lo dicono subito: Pino la Rana da solo non poteva. C’è chi ha visto più di una macchina quella notte, chi parla di altri uomini. Dettagli che la polizia si dimentica di approfondire, come se il delitto fosse una cosa sporca che è meglio non toccare troppo. Meglio lasciare tutto così, avvolto nella melma.
Poi arriva il 2005. Pino non è più la Rana, è solo un uomo stanco e malandato che si fa intervistare da Franca Leosini. E sgancia la bomba: “Non sono stato io. Erano in tre. Mi hanno picchiato anche a me. Mi hanno minacciato di ammazzarmi e di farla pagare alla mia famiglia.”
E il circo ricomincia. Le ipotesi tornano fuori come scarafaggi da sotto un mobile. Pasolini non è stato ucciso per una rissa tra omosessuali, no. È stato ammazzato perché dava fastidio a qualcuno di molto più in alto. Forse per il romanzo incompiuto, “Petrolio”, dove svelava schifezze sui rapporti tra politica, industria e criminalità. Forse perché la sua voce, troppo libera, non si poteva più sopportare.
Ma chi erano quei tre uomini? Fascisti? Gente dei servizi segreti? Mafia? Tutto insieme, in perfetto stile anni ’70, dove la politica non si faceva con i comizi, ma con le bombe nelle piazze e i corpi per terra.
Nel 2014 spunta pure una macchia di sangue sospetta sul maglione trovato nell’auto di Pasolini. Il gip di Roma, Maria Agrimi, dà un’occhiata e archivia tutto di nuovo. Fine della storia, almeno per la legge.
Ma la legge è una cosa, la verità un’altra.
Se non è stato Pino Pelosi a uccidere Pasolini, allora chi? E soprattutto perché?
Pino la Rana ha fatto da gancio. Un ragazzetto di borgata, perfetto per il ruolo di capro espiatorio. E a chi serviva davvero la sua morte, beh… quelli non hanno mai pagato niente. Anzi, probabilmente sono morti di vecchiaia nei loro bei letti, circondati dalla famiglia e con una bella lapide pulita.
Pasolini, invece, è ancora lì, all’Idroscalo. Non se n’è mai andato davvero.
Pasolini non dava fastidio solo perché era omosessuale, comunista e poeta. Dava fastidio perché sapeva. E peggio ancora, scriveva.
Negli anni Settanta, se mettevi il naso dove non dovevi, non ti arrivava una diffida. Ti arrivava una botta in testa, o una pallottola, o una macchina addosso. La politica non era roba da salotto, era roba da macelleria. E Pasolini, con la sua faccia magra e il sorriso malinconico, si era infilato dritto nel cuore di quella macelleria.
“Petrolio” non era un romanzo. Era un atto d’accusa. Un dossier travestito da letteratura. Dentro c’erano i nomi, i giochi di potere, gli intrecci tra la Democrazia Cristiana, le grandi aziende e la criminalità organizzata. Mattei, il suo successore Cefis, il giornalista scomparso Mauro De Mauro, il metanodotto dall’Africa alla Sicilia — pezzi di un puzzle troppo grosso per essere lasciato in giro.
Pasolini aveva capito la regola non scritta: chi guarda troppo a fondo in certe cose smette di vedere la luce del giorno. Lui ci ha guardato comunque.
I suoi appunti, oggi custoditi al Gabinetto Viesseux di Firenze, sono una mappa per capire dove stava andando a parare. E il punto d’arrivo era uno solo: Pasolini stava raccontando una verità che non doveva essere raccontata.
Non è così strano pensare che il pestaggio di Ostia fosse solo l’ultimo atto di una condanna già scritta. Pelosi potrebbe aver fatto da esca. Forse nemmeno sapeva per chi lavorava, forse sì. Ma non è importante. L’importante è che Pasolini ha smesso di respirare e la macchina del fango ha fatto il resto.
Il giorno dopo non era più un intellettuale brillante e scomodo. Era solo “un frocio ammazzato da un ragazzino di borgata”. Il modo migliore per spegnere una voce non è solo ammazzare chi la possiede. È trasformare quella voce in una barzelletta.
Pasolini lo sapeva anche questo. L’aveva scritto poco prima di morire:
“Io so. Io so i nomi dei responsabili. Io so i nomi dei potenti che manovrano, so i nomi dei grandi criminali che comandano da dietro le quinte. Io so. Ma non ho le prove.”
Non gli hanno dato il tempo di trovarle, le prove. Gli hanno dato calci, pugni, e un’Alfa Romeo addosso.
E il bello — il tragico, il grottesco — è che ci sono riusciti. In meno di 24 ore, Pasolini era già diventato un morto scomodo. In una settimana, era diventato un cadavere colpevole della propria morte.
Oggi Petrolio è lì, incompiuto e impolverato, ma non serve leggerlo per capire il messaggio. Basta guardare la sabbia dell’Idroscalo, dove Pasolini è rimasto per sempre, a occhi aperti, fissando una verità che noi non abbiamo mai voluto guardare.
Perché la verità fa male. E certe botte fanno ancora più male.
A questo punto la storia ha più strati di una millefoglie andata a male. Ogni ipotesi si incastra con l’altra, combacia a metà e poi deraglia, lasciando in bocca il sapore del marcio.
Pasolini non era solo un regista scomodo. Era una voce che rompeva i timpani a chi il potere lo gestiva con le mani sporche e la coscienza pulita. E in quella voce c’era tutto: la politica, il sesso, la denuncia sociale e, in questo caso, pure un film maledetto.
Sergio Citti, amico fraterno, raccoglie le briciole lasciate dietro quella notte. Gira filmati, raccatta testimonianze. Ma il suo materiale scompare nei meandri della burocrazia giudiziaria. Roba che non deve finire agli atti. Citti non viene nemmeno sentito. Perché? Forse perché aveva trovato qualcosa che non andava trovato.
E poi arriva la storia delle pellicole rubate. Il film era “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, un pugno nello stomaco che raccontava il fascismo come nessuno aveva mai osato fare. Le bobine spariscono dai laboratori della Technicolor. Qualcuno chiede il riscatto. Grimaldi, il produttore, dice no. Fine della trattativa.
Ma poi riemerge la Rana. Strano, eh? Pelosi rispunta proprio quando i ladruncoli dicono di voler restituire il maltolto. Pasolini ci casca, perché quel film era troppo importante per lasciarlo marcire in qualche scantinato. E così parte l’ultima sera della sua vita.
Il copione a questo punto cambia registro e diventa un noir di serie B, di quelli che finiscono male e lo sai già dal titolo.
Pasolini non si fida. Non fa salire tutti in macchina. Si porta solo Pino, che deve telefonare a qualcuno per “organizzare la consegna”. La chiamata arriva e le istruzioni pure: dopo mezzanotte, ad Acilia. O forse Dragona. O Vitinia. Non importa. Importa che si va verso la fine.
Prima però, una sosta al Biondo Tevere. Pino mangia, Pasolini no. Ha già cenato con Ninetto Davoli, forse sente già lo stomaco chiuso per quello che sta andando a fare. Poi via, direzione Ostiense. Strano anche questo: la via del Mare sarebbe stata la strada più logica per arrivare a Ostia. Ma forse la logica non serve quando sei diretto verso una trappola.
All’appuntamento arrivano gli altri. I complici. Ragazzi di borgata, sbandati. Carne da macello perfetta per chi muove i fili da lontano. Pasolini viene sequestrato, portato fino all’Idroscalo e lì finisce tutto.
Ma la domanda rimane: perché?
La teoria più comoda dice che quei ragazzi cercavano solo di impressionare qualcuno più in alto. Una prova di fedeltà, magari per entrare nelle grazie di chi contava davvero. Un omicidio commissionato da lontano e sporcato da vicino, fatto da manovali del crimine che forse nemmeno sapevano a chi stavano facendo il favore.
Pasolini, il comunista, il frocio, l’intellettuale, il regista che mostrava i peccati d’Italia senza vergogna. Lui non doveva più parlare, né scrivere, né filmare. E se nel pacchetto ci stava anche Salò, tanto meglio. Quel film era già una bomba prima ancora di uscire.
Il bello — anzi, il tragico — è che i veri mandanti, se ci sono stati, non hanno mai dovuto nemmeno nascondersi. Il cadavere lo hanno coperto di fango morale, e chi scomoda la memoria di Pasolini, ancora oggi, trova la stessa melma ad aspettarlo.
Forse non è una verità impossibile da trovare. Forse è solo una verità che nessuno ha mai avuto il coraggio di guardare in faccia.
Idroscalo Superstar – Epilogo
Cinquant’anni dopo, la storia di Pier Paolo Pasolini rimane una ferita aperta. Un crimine incastonato tra le ombre di un’Italia che non ha mai smesso di essere ambigua, impastata di potere, sottopotere e borgate dimenticate. Un Paese che ha trovato più comodo condannare la vittima che cercare i carnefici.
Pasolini l’aveva capito prima di tutti: la modernità non salva, seduce. E quando si lascia il potere indisturbato a riscrivere le regole, quello che resta è solo una parvenza di progresso, una facciata dietro cui le stesse miserie di sempre continuano a marcire. Lui le ha sbattute in faccia a tutti, senza filtro, e forse è proprio per questo che doveva essere messo a tacere.
Il suo corpo è stato sepolto, ma la sua voce no. Ancora oggi urla forte dalle pagine dei suoi libri e dalle immagini dei suoi film. Grida per gli ultimi, per i reietti, per quelli che non hanno mai avuto voce. E grida anche per chi, come lui, credeva che raccontare la verità — per quanto sporca e scandalosa — fosse l’unico modo per restare davvero vivi.
Il suo omicidio resta un mistero. La sua eredità, invece, no. Quella è ancora qui, più scomoda e più necessaria che mai.
Francesca Mezzadri