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Il cimitero delle macchine. Intervista a Sergio La Chiusa

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Il cimitero delle macchine, il nuovo romanzo di Sergio La Chiusa, uscito per Miraggi edizioni nel 2024, mostra il viaggio insteriore, dentro e fuori, di Ulisse Orsini, «un soggetto anti-moderno, non al passo con i tempi dettati dalla società dei consumi e perciò emarginato, espulso e costretto a vagabondare tra gli scarti del tardo capitalismo», attraverso un paesaggio domestico e urbano, realistico e psicotico, onirico e veggente, in cui l’occhio narrante pare esterno pure rispetto all’autore stesso. Un romanzo-fiume-mondo fatto di epica e digressioni, umorismo e tragica solitudine. Leggere dona gioia e anche momenti di riflessione e malinconia, La Chiusa dà voce al godimento del corpomente scrivente: «provare piacere è tuttavia fondamentale, per me, nella rilettura, perché segnala che la pagina è viva e, forse, degna di uscire dalla dimensione privata.» Il cimitero delle macchine è piacevole da leggere perché ci fa dialogare con fonti diverse, sorgenti variegate, luoghi e tempi che rizomano eventi probabili e sotterranee fughe verso altri episodi, come quello dell’entrata di Gesù nella modaiola Milano che «nasce dall’evocazione di un capolavoro pittorico pre-espressionista di James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, parodia dell’episodio evangelico dell’entrata del messia a Gerusalemme, dall’altro è una specie di rivisitazione burlesca del racconto dostoevskiano del grande inquisitore, incluso ne I Fratelli Karamazov.» Per questo motivo, e per altre ragioni anche, per il punto di vista telecameristico, a esempio, il romanzo di La Chiusa potrebbe «essere un lungometraggio. Ma ci vorrebbe un produttore pieno di risorse e spregiudicato, e un regista visionario, non subordinato alla dittatura della trama, […]» Il romanzo di La Chiusa è per certi aspetti un complesso quadro di una società, anche letteraria, che rifiuta categoricamente ciò che non è commerciabile, facile, e non conforme. Lo schiacciamento censorio avviene in modo subdolo: «sono il conformismo e l’introiezione del pensiero dominante e dei modi convenzionali in cui si manifesta a rappresentare la morte dei presupposti di una letteratura autentica, che dovrebbe essere pratica di libertà e verità.» In questo senso la pratica letteraria di La Chiusa ci riporta a quella, sempre più utopica, resistenza che si oppone all’omologazione, «un’insubordinazione, una reazione allo stato delle cose e allo spirito del tempo, e più in generale alle leggi imposte dalla realtà stessa, cui lo scrittore si sottrae per dare forma a una realtà altra, immaginaria, […]» un realtà che procede dalla desideranza e che genera il godimento della lettura…

Gianluca Garrapa

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Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?

Il cimitero delle macchine ha avuto una lunga gestazione. La prima stesura risale al triennio 2003-2005, e da allora è stato sottoposto a numerose rielaborazioni, soprattutto tra il 2021 e il 2023, prima di raggiungere la sua versione definitiva. In generale non è semplice dire come nasce un libro, e per quali ragioni e sotto quali spinte, perché è il risultato di un progetto e un processo razionali, ma anche d’impulsi sotterranei, provenienti dal proprio vissuto e non interamente compresi e governati nemmeno dall’autore, e di stimoli ulteriori, imprevisti, suscitati invece dalla materia trattata e dalla scrittura. A ogni modo, in principio ero mosso da un’ambizione spropositata, per i miei mezzi: scrivere un romanzo che entrasse in dialogo con la grande tradizione epico-romanzesca ma che risultasse nuovo, non epigonico, e che nello stesso tempo, pur non svelando nulla dell’autore, riuscisse a ritrarlo nella sua singolarità contraddittoria, precaria e plurale, abitata da parole e immagini altrui: un’opera che fosse insomma una rappresentazione simbolica della mia visione morale del mondo e del mio senso d’impotenza e spaesamento di fronte alle derive nichilistiche della nostra epoca e insieme un’enciclopedia portatile delle mie immaginazioni più sfrenate e delle mie esperienze estetiche. In altri termini: una mia versione di un “romanzo-mondo”. E ciò doveva avvenire grazie all’elaborazione di uno stile singolare e una storia che fosse una specie di odissea di un novello Ulisse, urbano e degradato: un soggetto anti-moderno, non al passo con i tempi dettati dalla società dei consumi e perciò emarginato, espulso e costretto a vagabondare tra gli scarti del tardo capitalismo. Per sottrarmi al rischio di pretenziosità cui mi esponeva il progetto, mi pareva necessario trattare i temi più impegnativi in maniera umoristica, ricorrendo alla parodia e all’abbassamento di tutti i modelli alti, e, soprattutto, servirmi di uno stile e di una struttura molto duttili, che mi permettessero di convogliare materiali eterogenei all’interno di un flusso verbale ininterrotto, come un fiume in piena che trascinasse in un unico inarrestabile viaggio narratore, lettore, personaggi e immagini del mondo in sfacelo. Per queste ragioni non poteva che essere la digressione il motore del romanzo, lo strumento per espandere parossisticamente il discorso narrativo; e in effetti credo che il romanzo si sia sviluppato in virtù di due forze opposte: una centrifuga, anarchica, disorientante; e una centripeta, che riporta all’ordine. Digressione e impasto di alto e basso, tragedia e commedia, caratterizzano in verità le origini stesse della storia del romanzo, ma mi sembravano i mezzi più adeguati per restituire un’idea del nostro modo schizofrenico di percepire la realtà nell’epoca della connessione permanente, sottoposti come siamo a continue informazioni, messaggi e sollecitazioni che ci fanno scivolare rapidamente e in uno stato di ebetudine e irrealtà da un’immagine all’altra: dalle macerie, realissime, di Gaza devastata dai bombardamenti israeliani a Trump in versione papa creato dall’intelligenza artificiale; da un bambino senza gambe a un dribbling di Yamal.

Quando scrivi, godi?

Nei momenti più felici, quelli in cui l’invenzione sembra scaturire naturalmente dalla lingua stessa, o le parole riprodurre in maniera precisa, nitida e ritmata le immagini mentali, provo in effetti una sensazione di piacere intellettuale, spirituale e persino fisico: una specie di esaltazione. Ma sono entusiasmi provvisori, cui segue in genere una caduta, una disillusione, uno svuotamento. Per il resto si tratta soprattutto di ostinazione; e un po’ come in una relazione profonda e di lunga durata, risultato di passione e desiderio e insieme di progetto e impegno, nella scrittura bisogna saper pazientare, accogliere tempi inerti, e impiegarne altri, lunghi e snervanti, intorno alla soluzione di problemi apparentemente minori: una cadenza che inciampa su una sillaba, un aggettivo impreciso, una metafora pigra, una situazione troppo generica, che non si riesce a individualizzare… Insomma, piacere di dare forma a qualcosa di fantasmatico, e persino ebbrezza, a volte, ma soprattutto dedizione, perseveranza. Provare piacere è tuttavia fondamentale, per me, nella rilettura, perché segnala che la pagina è viva e, forse, degna di uscire dalla dimensione privata.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?

Mi piace citare un episodio che mi sono particolarmente divertito a scrivere e che, sebbene mi sia trattenuto, sono stato spesso tentato di espandere aggiungendovi personaggi e sviluppando vicende laterali fino a trasformarlo in un romanzo autonomo. Mi riferisco all’episodio in cui s’immagina il ritorno di un invecchiato e disorientato Gesù, in groppa a un altrettanto invecchiato e disorientato somaro, nella città della moda e degli eventi, Milano, nel tempo della società dello spettacolo: un brano rischioso, a mio avviso, e denso di risonanze, perché è insieme una satira della società contemporanea e un testo umoristico che entra sfacciatamente in dialogo con alcuni capisaldi della cultura occidentale: se da un lato può essere visto come una parodia di una parodia, in quanto nasce dall’evocazione di un capolavoro pittorico pre-espressionista di James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, parodia dell’episodio evangelico dell’entrata del messia a Gerusalemme, dall’altro è una specie di rivisitazione burlesca del racconto dostoevskiano del grande inquisitore, incluso ne I Fratelli Karamazov. Un episodio, il mio, che voleva essere insieme comico, satirico, parodico e visionario, e che forse può condensare lo spirito dell’intero romanzo. Troppo lungo per essere riportato, ne trascrivo un brevissimo passaggio:

Il Cristo tricolore è visibilmente commosso. Sono passati tanti anni e tutti si ricordano di lui e gli vanno tributando i meritati onori: temeva un ritorno nell’anonimato e invece la folla è in tripudio: «Viva Gesù!», «Viva Gesù!»… Ma guarda! Perfino la fanfara, la banda di suonatori d’ottoni, piatti, tamburi, i bersaglieri impennacchiati e ritti sull’attenti, i trombettieri che spernacchiano i loro vivificanti osanna, e in cielo, in luogo d’antiquati musicanti e patetici angeli annunciatori, le acrobazie delle frecce tricolori che piroettano lasciandosi dietro splendide scie tossiche.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Potrebbe essere un lungometraggio. Ma ci vorrebbe un produttore pieno di risorse e spregiudicato, e un regista visionario, non subordinato alla dittatura della trama, capace di amalgamare realismo e proliferazione fantastica, tragedia e commedia, e abile nel gestire lunghi piani sequenza. Un Fellini resuscitato per l’occasione, per esempio, o un Kusturica, magari con la consulenza di un Tarkovskij, anch’egli resuscitato, o di un Tarr, per i movimenti di macchina. Mi accontento di poco, insomma.

Che rapporto hai con la censura?

Non esistono periodi storici in cui non ci siano state forme di controllo sociale sull’opinione pubblica, e la nostra epoca tecnocratica, segnata dalla rivoluzione digitale, non solo non fa eccezione, ma ha dotato i potenti di turno di nuovi strumenti tecnologici. Viviamo, perlomeno in Occidente, in post-democrazie, sistemi che, sebbene regolati da istituzioni democratiche, sono in realtà pilotati da gruppi di potere economici, finanziari e mediatici. In simili sistemi la censura non si manifesta in genere in maniera esplicita, come nei regimi autoritari, ma in modi indiretti, e tuttavia pervasivi: tramite il mercato che seleziona ciò che può avere visibilità e ciò che deve invece restare nella periferia del sistema, i media tradizionali e le casse di risonanza dei social che, lungi dall’essere piattaforme neutrali, selezionano le informazioni e le opinioni da divulgare e rallentano la diffusione di quelle scomode in modo che si disperdano nel rumore di fondo, e per finire, estrema risorsa prima della violenza esplicita, poliziesca, senza maschere, il discredito pubblico gettato sulle voci dissonanti che in qualche modo sono riuscite a emergere senza sottomettersi alla campagna del momento. Tale tendenza mi pare abbia subìto una forte accelerazione dalla pandemia, una specie di prova generale del pensiero unico e di rinnovate forme di autoritarismo, e via via attraverso tutti i vari stati emergenziali, strumentali o strumentalizzati, che si sono succeduti. Si tratta insomma di forme di condizionamento e d’interdizione superficialmente rispettose delle norme democratiche, ma che, in tempi di propaganda bellica, rischiano di saldarsi con vecchi modelli di censura, palesemente fascisti. In un tale quadro, la sostanziale irrilevanza economica della letteratura potrebbe paradossalmente trasformarsi in un’opportunità: di dire liberamente, in maniera spregiudicata, secondo i propri modi non soggetti a mercificazione intellettuale. Il controllo ideologico esercitato da poteri politici, economici e mediatici strettamente connessi è un peso che opprime la società civile, ma sono il conformismo e l’introiezione del pensiero dominante e dei modi convenzionali in cui si manifesta a rappresentare la morte dei presupposti di una letteratura autentica, che dovrebbe essere pratica di libertà e verità. “Libertà che chiama libertà”, usava dire il poeta Giancarlo Majorino, e nella sua sintesi mi è sempre parsa una definizione bella e condivisibile, in quanto alla libertà dello scrittore deve rispondere quella del lettore.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Non un mestiere, per quanto mi riguarda. Potrebbe trattarsi in effetti di una contestazione dello status quo, se non intendiamo con questa espressione una letteratura di denuncia che ingenuamente intenda intervenire sulla società, ma piuttosto un’insubordinazione, una reazione allo stato delle cose e allo spirito del tempo, e più in generale alle leggi imposte dalla realtà stessa, cui lo scrittore si sottrae per dare forma a una realtà altra, immaginaria, che s’illude di dominare, dal momento che nel romanzo, per esempio, sono personaggi e vicende e linguaggio a sottomettersi, almeno in parte, alle sue leggi, mentre nella “vita reale” lo scrittore, cioè il sottoscritto in questo caso, non può che muoversi maldestramente nelle vischiose reti delle leggi esterne: politiche, economiche, biologiche, eccetera… Ma, come accennavo sopra riprendendo le parole di Majorino, si tratta soprattutto di una prassi di libertà, tra le poche rimaste, e una ricerca di senso, bellezza e verità: una diga immateriale di invenzioni verbali illusoriamente edificata contro le infestanti paludi del non senso e della menzogna.

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Sergio La Chiusa, Il cimitero delle macchine, Miraggi edizioni, 2024.

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