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Il detective sonnambulo. Intervista a Vanni Santoni

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Vanni Santoni, Il detective sonnambulo, Mondadori, 2025.

Il detective sonnambulo, il nuovo romanzo di Vanni Santoni edito da Mondadori nel 2025, compie il miracolo letterario di altrovare, cioè collocare in un altrove straniante, personaggi e luoghi ben creati e strutturati, e dunque riconoscibili, ma ‘altrovando’ il punto della visione in una narrazione diagonale e realizzante comunque. Il romanzo nasce quindi altrove e si sviluppa nella scrittura del libro, ma l’origine è nelle «immagini casuali che mi appaiono in mente: quelle che per qualche motivo, che io stesso ignoro, mostrano un diverso “carico narrativo potenziale” rispetto ad altre.» Il lavorìo inconscio delle immagini diventa scrittura anfibia come per metamorfosi, dalle branchie immaginali alle lettere polmonari attraverso un procedimento trasformativo o meglio «Per usare un termine caro alla psichedelia (e alla psicanalisi) è un processo di integrazione.» La scrittura dell’altrove di Santoni delimita le visioni nei corpi e nei paesaggi, interioriesteriori, e reticola di pulsazioni desideranti il campo di movimento della narrazione. E spostamenti continuativi anche di luoghi e apparenze che essenziano i personaggi, soggetti mutevoli. Sicché proprio al cuore del detective sonnambulo avviene una deformazione dello sguardo e della visione direttamente, quasi consustanziale alla vicenda scrittoria dell’autore, come se la realtà della finzione fosse complemento del reale del soggetto scrivente: «Io mi forzo sempre a scrivere ogni giorno, ma uscivano al massimo poche righe qua e là, perché – ora lo so – mancava ancora la transizione, lo stacco tra il realismo della prima metà e il piano più onirico e simbolico della seconda.» In più punti questo andare oltre, diventa luogocchio per guardare (théatron) oltre e l’intero impianto scrittorio di Santoni diventa ‘cimema’, simbolo che si propaga dall’immago primaria e attraversa i registri del possibile e dell’onirico: nella seconda parte del romanzo, a esempio, «quando emergono con forza i monologhi di Manfredi Contini della Torre sui massimi sistemi, forse prende un carattere più teatrale che cinematografico.» Andare oltre che è anche altrovare la visione e il parlottio perché «quando si scrive, si parla coi morti, mica coi vivi… Se non è così, non si sta facendo abbastanza sul serio», e in questo senso il viaggio letterario di Santoni, almeno fin qui, ha sempre trascinato il lettorelettrice anche in piani oltremondani, nella dimensione trascendente del realizzabile «dato che è uno dei temi che mi stanno più a cuore», ma senza scordare che il possibile stacco dalla realtà è credibile anche soprattutto nella conseguenza del lavoro di lettura, leggere tanto e molto, leggerescrivere sono facce infinite di una stessa medaglia. «La letteratura visionaria, poi, sta benissimo: leggere L’atlante delle nuvole di David Mitchell, Abbacinante di Mircea Cărtărescu o la trilogia del Pharmakon di Dale Pendell per credere… »: ancorarsi a questialcuni punti fissi per potersi gettare nel vuotopieno della creazione, e ripetere il salto, la transizione all’esistere↔continuum↔scrivere, encore, encore…

Gianluca Garrapa

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1. Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?

Il detective sonnambulo nasce da due immagini, piuttosto lontane tra loro. Una era quella di un ragazzo squattrinato che girava, d’umor cupo, in uno di quei mercatini delle pulci “at large” che si tengono a Natale nei quartieri buoni di Parigi, quelli in cui sono in vendita anche intere stanze, camere da letto anni ’60, salotti in stile, eccetera; l’altra era una colonna di NCC dai vetri oscurati che attraversava il deserto di Atacama, in Cile. Può sembrare curioso, ma quando scrivo un romanzo “puro” come questo (o La verità su tutto, o I fratelli Michelangelo) parto sempre da immagini casuali che mi appaiono in mente: quelle che per qualche motivo, che io stesso ignoro, mostrano un diverso “carico narrativo potenziale” rispetto ad altre. Diceva Nabokov che scrivere un romanzo è come farsi un indovinello molto difficile e poi cercare la soluzione. Ovviamente non è sempre così, ma in questo caso è stato così. Cercando di unire i punti è nato prima Martino, poi riflessa in una specchiera (di quelle esposte al mercatino, sì) è apparsa Johanna, poi Manfredi in un video (quello che a un certo punto si “vede” nel romanzo), infine – attraverso un manifesto, sia pure indirettamente – Tanya, e intanto si formava la trama, si identificavano i temi possibili, nasceva insomma il romanzo.

Quando scrivi, cosa diventa la musica e le immagini che ti hanno attraversato?

Quando si scrive un romanzo, anche di pura fiction come è il caso del Detective sonnambulo, si utilizza sempre una riserva di vissuto e di senso, nonché di immagini, suggestioni ed emozioni immagazzinate. Quando però si rilasciano nel testo, e ciò avviene quando la scrittura entra per così dire “in flusso”, si tende a perdere la percezione della loro provenienza esatta, perché vengono mediate dal sentire dei personaggi e diventano altro. Per usare un termine caro alla psichedelia (e alla psicanalisi) è un processo di integrazione. Se funziona, dopo che il romanzo è finito non è più pienamente decodificabile.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?

La cosa più difficile da trovare è stato il finale, e con esso trovare il “giusto destino” per ognuno dei quattro personaggi: ho vagliato innumerevoli possibilità e incroci, e ho scritto cinque finali diversi prima di arrivare a quello giusto. La parte più importante del libro – in termini di suo sviluppo, diciamo – è quella che si svolge al festival, in cui Martino è in botta totale a causa di un mix di sostanze che gli ha somministrato Manfredi… Prima di scriverla mi ero proprio bloccato, da qualche mese stavo rimuginando invano e la scrittura procedeva pochissimo… Io mi forzo sempre a scrivere ogni giorno, ma uscivano al massimo poche righe qua e là, perché – ora lo so – mancava ancora la transizione, lo stacco tra il realismo della prima metà e il piano più onirico e simbolico della seconda. E per arrivare nel Paese delle Meraviglie, si sa, tocca varcare la soglia. Passare attraverso a uno specchio o sprofondare nella tana di un coniglio. La scena del festival ha avuto questa funzione, e quando l’ho inquadrata, il libro si è sbloccato, almeno finché non ho poi sbattuto sul problema del finale, ma a quel punto ormai sapevo che avrei sciolto anche quell’ultimo nodo. Ecco un pezzetto della scena di cui parlavo, in realtà è molto più lunga e Martino sprofonda molto di più nel delirio, ma può bastare, forse, per dare l’idea…

Appena infilo la testa nell’ingresso di quel teepee che ora, per il solo aver notato una piccola decorazione sul cordame, mi pare subito indiano, vedo che dentro ci sono Tanya e Johanna che parlano e la cosa in qualche modo mi rassicura, ma ho un urto di vomito, lo controllo a malapena, mi sa che qualcosa sbrodolo ma le due mi agguantano, Tanya per il capo e Johanna per il corpo e mi voltano come un enorme insaccato e mi fanno vomitare subito fuori dalla tenda scambiandosi versi di schifo che mi riecheggiano in testa frattali, rifrangenti, rimbalzanti…
Poi Johanna mi pulisce la bocca e mi stende; Tanya deve essere già uscita, mi rivolto in me stesso nel più denso deliquio, come perso in una marmellata di pastelli di cera e stelle luccichine e rigurgiti interiori, intravedo Tanya fuori che getta una secchiata d’acqua sul mio vomito, e poi dice Fanculo, una me la fumo, e Johanna che le passa una sigaretta… Parlano, parlano, io cerco di riagguantare il mio cosmo… Come funzionava il cosmo? dico, nei Cavalieri dello Zodiaco? Il punto era espandere il tuo cosmo, e fin qui c’ero, diciamo (scoppio a ridere come un pupazzo-joker impazzito uscito da una scatola psichica multidimensionale, come se la scatola di Lemarchand di Hellraiser fosse un jack-in-the-box, rido così tanto che le due sbucano, guarda Johanna e Tanya, come un sole-luna che s’affaccia dall’oblò dell’astronave di tessuto, tuuuuuttapposto ragaaaaazzze… Wooow… Quindi è questo che intendevano quegli hippie, dico citando chissà che film, e mi rimetto a ridacchiare da solo, poi ho un brivido, la situazione è inquietante? Che c’è? È calato il sole? È notte? Ah no, è solo – forse – passata una nuvola sul sole con conseguente cambio di luminosità nella tenda, ah giusto, siamo in una tenda…), insomma espandere il cosmo, e ok, Brucia, mio cosmo!, e ok, ma per farlo rientrare? Devo star zitto a pensarci per un po’ (quando ero diventato io stesso disegnato, peraltro? By the way? Baaai theee way…🎶) musica però solo nella mia testa (e fuori certo, che musica è che arriva? o sono più musiche?), però però però devo mi sa io credo star zitto per un po’, a pensarci (a cosa poi?) perché le ragazze si rivolgono a me, eccole dall’oblò, cioè l’ingresso – evidentemente – di una tenda, della tenda, Johanna che dice Capite che dobbiamo aiutarlo? Parla di me? Mi sa che parla di me… Ho bisogno d’aiuto? Forse ho bisogno d’aiuto… Ma poi Johanna mi fa:
– Lo capisci anche tu, no?
Immagino/presumo che parlassero quindi di Manfredi… Mi viene da ridere… – Johanna, – dico, o credo di dire, o dico più volte, non so, ma di certo lo faccio estraendo la sua faccia da un groviglio di viticci avvoltolati, di ricci frattalicchi, di spire e vilupere e viparicchi, e riposizionando Tanya al suo posto, cioè subito fuori dalla tenda, anche se mi pare lontana chilometri, in tutta franchezza, Johannammm dico… – Vedi, Johanna… Come dire… Manfredi… Di cosa stavamo parlando, poi?
– Del fatto che dobbiamo aiutarlo.
– Ahhh… Ecco, ecco… Ah ah… Be’, Johanna, io dico… Dico… Manfredi… Come dire… Ecco… Mi pare la persona che ha meno bisogno d’aiuto al mondo.
– Invece dobbiamo aiutarlo a realizzare il suo progetto. Dal quadro generale dipendono i progetti di tutti noi, compreso il tuo, – dice Johanna e io mi chiedo quale mai possa essere il mio progetto, e scoppio a ridere; poi mi rendo conto che sta parlando a Tanya, – E non è solo questo, – le dice, – se non lo inquadra, se esce dai binari, potrebbe diventare addirittura pericoloso.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere Il detective sonnambulo?

È stato scritto che è un romanzo molto cinematografico, sia per i molti riferimenti (il protagonista e voce narrante Martino Suckert è un cinéphile e i suoi dispositivi di organizzazione simbolica vengono più dal cinema che dalla letteratura), sia per certe scene molto dinamiche che hanno luogo in location fortemente caratterizzate. Ciò vale soprattutto nella prima parte; nella seconda, quando emergono con forza i monologhi di Manfredi Contini della Torre sui massimi sistemi, forse prende un carattere più teatrale che cinematografico.

Che rapporto hai con la censura e con la politica editoriale?

Non mi è mai capitato di essere censurato. In questo, va detto, il mondo del libro è molto pulito e onesto. Circa le politiche editoriali… se si parla di contenuti, ho la fortuna di aver affermato abbastanza presto un mio discorso, sia dal punto di vista stilistico che tematico, quindi negli editor e nelle editor che ho incontrato ho sempre trovato ottimi consiglieri e consigliere, mai nessuno che ha tentato di impormi una direzione. Se si parla, invece, di tutto ciò che c’è attorno – distribuzione, promozione, lanci, eccetera… – vedo che ci sono diverse storture, ma in quale campo non ce ne sono? La letteratura è un’altra cosa rispetto all’editoria, e gli scrittori e le scrittrici a mio avviso dovrebbero concentrarsi solo sullo scrivere i migliori possibili romanzi. Poi, certo, se escono per editori più grossi e arrivano a più lettori, se quei libri producono reddito, se vincono premi (e quindi arrivano ad ancora più lettori), se ottengono i favori della critica e dei colleghi, è tutto certamente positivo e desiderabile, ma simili considerazioni non devono mai contaminare il lavoro di scrittura. Quando si scrive, si parla coi morti, mica coi vivi… Se non è così, non si sta facendo abbastanza sul serio.

Esiste un dialogo tra la tua scrittura e il trascendente?

Spero di sì, dato che è uno dei temi che mi stanno più a cuore. Spero che sia emerso a sufficienza dalla terza parte di Muro di casse, dall’intero La verità su tutto e pure dalla “parte di Rudra” dei Fratelli Michelangelo… Ma essendo un tema inesauribile, ci tornerò sopra, a cominciare dal prossimo romanzo “grosso” che sto scrivendo, ma di cui è ancora troppo presto per parlare…

C’è ancora, secondo te, un sesto senso della letteratura e la possibilità di una letteratura visionaria?

Tutta la letteratura davvero riuscita ha un sesto senso e pure il settimo, come i Cavalieri dello Zodiaco. La letteratura visionaria, poi, sta benissimo: leggere L’atlante delle nuvole di David Mitchell, Abbacinante di Mircea Cărtărescu o la trilogia del Pharmakon di Dale Pendell per credere…

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