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Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa. Intervista a Francesca Mattei

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Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è una raccolta di 17 racconti, alcuni dei quali già apparsi in riviste online, che mostrano il disagio e la quotidianità di vite intrappolate felicemente nell’abuso di alcool e dipendenze tossiche, farmaceutiche e sessuali. E infondo chi non si può dire dipendente da qualcuno o qualcosa? I personaggi di Francesca Mattei non sono macchiette di una finta sotto-cultura anarcoide, e non c’è scimmiottamento di atteggiamenti pulp. Le persone, i soggetti dei racconti, sono esseri desideranti che lasciano, volenti o nolenti, roteare le loro esistenze intorno al corpo, alla sua distruzione. È una scrittura fatta di ossessioni e precisione, di onestà che non si lascia prendere la mano dal fatto scandaloso fine a sé stesso. In queste vite derelitte e maledette c’è il reale di un naufragio dei sentimenti. Le droghe e gli psicofarmaci possono essere anche letti come metafore di dipendenze affettive, ma innanzitutto sono quello che sono: fonte di sballo e di amplificazione-ottundimento sensoriale. Realismo psicotico che fuoriesce dal dato letterario e esistenziale e si fa prestare meccanismi narrativi da strutture musicali, impianti filmici. Gli ambienti, poi, sono mondi vissuti, non solo nello spazio della pagina, nella gestalt quotidiana di chi racconta ciò che sa o ha vissuto. Spontanea e dura, chirurgica e poetica, metafisica e carnale: la descrizione animale di Francesca Mattei è il foro del godimento mortale, quella Cosa di lacaniana memoria, intorno cui si costruiscono cattedrali, edifici di scienza e sapere o, come in questa raccolta di racconti, lampi di estetica saggezza a illuminare il nubifragio nero della vita.

Gianluca Garrapa

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«Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa indossavo una camicia verde: mi è sempre piaciuto abbinare i colori complementari»: il titolo è quello di un racconto: come mai hai scelto proprio questo titolo a rappresentante dell’intera raccolta?

Abbiamo scelto un titolo che ci sembrasse emblematico dei temi che abbiamo trovato nella raccolta, come quello della fuga e dell’autodistruzione, del tentare di acquisire una consapevolezza in un contesto che è la propria casa, ma è anche qualcosa che crea disagio. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il modo che la protagonista trova per uscire da una situazione disperata è dare fuoco alla casa che fino a quel momento aveva curato. Probabilmente non è una soluzione, almeno io la sconsiglierei, ma a lei sembra l’unica via possibile.

Alcuni dei tuoi racconti sono apparsi in riviste online e però sono stati leggermente modificati: quali sono le tue abitudini riguardo, appunto, la scrittura e la riscrittura di un racconto? E chi sono i tuoi riferimenti letterari?

Per me è sempre difficile parlare di riferimenti letterari, nel senso che sicuramente ci sono autori e autrici che mi influenzano, ma non è mai una cosa del tutto consapevole. Sicuramente ci sono scrittrici e scrittori molto stimolanti, come Alexandra Kleeman, Shirley Jackson, Stig Dagerman.

Quando abbiamo iniziato a lavorare alla raccolta, ho preferito inviare all’editore (Stefano Pirone) i testi originali, e non la versione già editata apparsa sulle riviste e questo per due motivi. Il primo è legato al fatto che mi sarei sentita di “rubare” il lavoro di editing di qualcun altro, che comunque ci aveva lavorato in vista di una pubblicazione online e non cartacea. Inoltre ho pensato che fosse giusto che Stefano leggesse i testi originali e che quindi potessimo lavorare all’editing in modo più omogeno, per così dire.

«La osservo come se mi specchiassi: sembra un personaggio fuori stagione, una sagoma tridimensionale su sfondo piatto.» (Struttura ossea). Nei tuoi racconti la voce narrante, più che raccontare, oltre a narrare, sa ascoltare e osservare le sfumature delle nostre nevrosi, degli abiti stretti che d’abitudine indossiamo, per imitazione sociale, magari. Ci racconti come hai costruito i tuoi personaggi?

Di solito penso a un rapporto molto stretto tra personaggi e contesto, ovviamente, perché nella nostra quotidianità noi esistiamo in un certo modo perché siamo nati e cresciuti in un certo ambiente, con il quale interagiamo. Molti dei protagonisti e delle protagoniste, che raccontano in prima persona, sono narratori (soprattutto narratrici) inaffidabili e, quindi, è come vedere il mondo attraverso il filtro dei loro occhi. Ognuno ha un filtro, ovviamente, ma in questo caso spesso chi parla è in uno stato di alterazione o in una situazione patologica (penso al racconto “My only sunshine”, in cui la narratrice è affetta da una forma di alcolismo ad alto funzionamento).

«La musica cambia di nuovo e le ragazze si avvicinano a me danzando, mi sfiorano e mi leccano e io continuo a ruotare.» (Nata per questo). La tua scrittura, in certi momenti, rasenta una certa armonia poetica. Pur raccontando la frammentazione degli attimi, il gorgo distruttivo del disagio, riesci a donare l’immagine perfetta della realtà. Che rapporto hai con la musica? L’ascolti mentre scrivi?

Non ascolto mai musica mentre scrivo, né mentre rileggo, perché mi distrae troppo. La ascolto spesso mentre faccio qualsiasi altra attività. In alcuni racconti mi capita di inserire degli episodi legati alla musica, come concerti o citazioni (penso a “Ma tu non la senti”, dove il titolo è una parte del testo di Buio dei FBYC, “My only sunshine” o “Nessuno ha provato a riaccendere il fuoco”, in cui la protagonista racconta dei concerti punk a cui ha partecipato).

«A quanto pare non aver sentito la sveglia non è una motivazione sufficiente, sembra che ci sia sotto qual­cosa, un desiderio inconscio probabilmente.» (My only sunshine). La tua scrittura è desiderante, circuita intorno al nucleo pulsante del godimento primario, quello che alcool e droghe spesso suppliscono e amplificano. Folgorante è la tua capacità di mostrare i meccanismi sociali, economici e antropologici, inconsci. La (tua) scrittura che rapporti intrattiene con la legge, diciamo con la tecnica, e con il desiderio, cioè con la spontaneità viscerale, con l’innata propensione dell’essere umano a narrare e narrarsi?

Questa è una domanda interessante e difficile. Mi verrebbe da dire, banalmente, che tutti si raccontano in modo più o meno consapevole. Secondo me è anche molto bello raccontare gli altri, raccontare delle storie che hanno un particolare significato per chi scrive, forse. È come quando fai una ricerca etnografica o quando studi un fenomeno: il fatto stesso che tu abbia scelto come oggetto di studio proprio quel fenomeno e non un altro “tradisce” il tuo interesse. Il modo in cui poi conduci la ricerca, gli indicatori che scegli ecc. sono il tuo modo di raccontare quel fenomeno. Non so, però, perché scegliamo di parlare di alcune cose piuttosto che di altre.

«La città è deserta e scura. Fredda e appena estranea, come un vestito lasciato a lungo sul fondo dell’armadio.» (Croste). Il mondo intorno è anche una proiezione dell’ambiente interno, le persone che agiscono in queste pagine sono quell’uno nel tutto che li accoglie o li respinge. C’è sempre armonia, magari discorde, fra esseri e cose. Che rapporto hai, come scrittrice, con il tuo territorio?

Nel libro non è mai esplicitata l’ambientazione delle storie, ma mentre scrivevo io ho sempre avuto presente la mia città (Massa-Carrara), anche se non ho sentito il bisogno di specificarlo. Diciamo che mi è servita più come guida per raccontare un certo contesto, cioè quello di una provincia abbastanza piccola, con molte situazioni difficili a livello economico e sociale e con le sue specificità (in questo caso una bella dose di degrado post-industriale, che, diciamolo, ha il suo fascino e per me significa Casa). Non mi piace quando si dice che in provincia non succede mai niente. Le storie della provincia, o quelle della periferia, sono storie come le altre, solo siamo abituati a vederle come marginali rispetto al centro.

Alcuni dei luoghi di cui parlo, poi, come le scogliere, la cementeria abbandonata o i carriponte, esistono davvero e fanno parte dello scenario che vivo tutti i giorni.

«Laura è adesso completamente spellata. Il suo corpo di polpa muschiata si muove lasciando scie di luce intorno a sé.» (Muta). Che ruolo ha l’esperienza del corpo nella tua scrittura, a volte narri dal punto di vista maschile. Credi che il genere determini la forma o il contenuto di quanto si narra, o la letteratura è un campo neutro, dove tutte le differenziazioni biologiche e simboliche si annullano?

Credo che di questo argomento si potrebbe parlare per cento anni, e non so se sono in grado di rispondere. Io sono donna e sono sempre stata donna, anche se non ho mai avuto un’espressione di genere particolarmente vicina a ciò che di solito viene associato alla femminilità e, crescendo, non mi sono mai riconosciuta in delle moltissime rappresentazioni che vedevo. Nonostante questo, sicuramente sono stata vista, cresciuta e trattata da donna (sia dalle agenzie di socializzazione come la scuola, la società e il gruppo dei pari sia dalla famiglia), qualsiasi cosa ciò significhi. Penso che per tutti e tutte noi sia davvero difficile capire cosa abbiamo interiorizzato in quanto persone definite come uomini o donne alla nascita e quanto, in modo inconsapevole, il nostro modo di sentire e vedere quello che ci circonda e il nostro stesso corpo dipenda da questo processo di interiorizzazione. Sicuramente il corpo delle donne è visto e trattato in modo differente da quello degli uomini, sia da parte degli uomini che da parte delle donne stesse (in questo caso parlo solo di uomini e donne perché penso esclusivamente a come viene vista l’appartenenza a un sesso biologico).

In generale, a prescindere dalla questione di genere, che è molto difficile da trattare e non so se so farlo in modo corretto, faccio molta fatica a pensare in termini dicotomici del tipo corpo/mente o ancora meno corpo/anima. Il corpo mi sembra l’unica cosa che abbiamo e che siamo (anche il cervello fa parte del corpo).

Forse le voci degli uomini e quelle delle donne, anche in letteratura, sono diverse le une dalle altre. Ma è pur vero che anche le voci delle donne sono diverse tra loro, perché in realtà intervengono troppe variabili e le persone sono fratture. È facile che alcune persone appartenenti a una certa etnia abbiano fatto esperienza di episodi di razzismo di cui persone appartenenti a un’altra etnia non hanno fatto esperienza. Persone con un certo tipo di orientamento sessuale saranno state discriminate più spesso di altre e così via. Quando parlo, non so se vale anche per gli altri, non ho mai la piena consapevolezza di cosa mi porto dietro, ma mi sembra che siano cose di cui tener conto, se non si vuole pensare a se stessi/e e agli altri e alle altre in termini di categorie stereotipate. E questo mi sembra valga la pena anche nella scrittura, ecco.

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