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Il grande nudo. Intervista a Gianni Tetti

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Nel tuo romanzo, i protagonisti sono sì esseri umani ma, alcuni di loro, si trasformano in quasi-animali, in quasi-cani. Altri, invece, come il cane nero che accompagna il marjarzu, addirittura parla come un umano. C’è anche il vento, in qualche modo, che pare essere una voce-narrante, e poi anche la voce che interloquisce con il prete: mi viene da pensare che lo spettro in cui ti muovi, nel costruire i tuoi personaggi, oscilli dalla realtà carnale alla virtualità psicotica fino al soffio metafisico. Se è davvero così, ci spieghi il motivo di mettere insieme più dimensioni differenti?

Il romanzo può raggiungere una completezza inimmaginabile per altre forme d’arte. Avere, insieme a personaggi in carne e ossa del tutto simili ai nostri vicini di casa, un personaggio come il vento, avere una voce che suona solo nella testa di un personaggio, avere animali che parlano, e addirittura dare loro una verosimiglianza, sentire lo sguardo della madre terra su tutti loro, sventurati, vivere, come se fossero qui, ora, i ricordi dei personaggi o i loro sogni, credo lo si possa fare solo attraverso il romanzo, che ti permette di scavare su più dimensioni e raggiungere profondità assolute. Mettere insieme più dimensioni mi è servito per arrivare in profondità, per raccontare quello che succede ai personaggi ma anche ciò che accade dentro i personaggi.

Come ci sei riuscito?

Parte tutto da un’idea precisa, dal progetto che ho in testa fin da quando ho iniziato a scrivere. La mia idea di letteratura trascende il genere, e il concetto di personaggio è visto in maniere piuttosto ampia. Nei miei tre romanzi c’è sempre una componente umana in contrapposizione a una componente animale, c’è sempre il vento che soffia e, in un certo modo, guida gli atti di alcuni protagonisti, c’è chi sente l’istinto di parlare con una pianta o con il cielo, c’è, insomma, una vita oltre la nostra. Mi spiego, tendiamo a considerare il mondo e, di riflesso, le storie, solo dal punto di vista della dimensione umana. A me interessa vedere le cose anche attraverso punti di vista inediti, come quello del vento o di una voce nell’aria o di un cane, mi interessa indagare altre dimensioni, anche se poi ciò che racconto è sempre l’elemento umano, l’umanità, persa, ritrovata, dimenticata. Non saprei davvero spiegare come avviene tecnicamente. E sarebbe lungo raccontare ogni elemento che ha guidato la scelta dei personaggi. Ho sentito il bisogno di farlo, sapevo che era l’unico modo per scrivere il mio libro e che, per farlo, avrei dovuto attingere alla tradizione della favola, della leggenda, dell’epos, dove dei capricciosi spesso si prendono gioco dei protagonisti, dove formule magiche o rituali sono in grado di rivelare il futuro o condizionarlo. A questa dimensione favolistica ho accostato personaggi e situazioni verosimili, il nostro presente, insomma, o una realtà finzionale che lo richiama. Ma forse la risposta giusta è che mi sono tanto divertito, così ci sono riuscito.

Che rapporto hai con la tua terra, e mi riferisco alle tradizioni folcloriche e alle credenze magiche della tua Sardegna? Nel tuo racconto è presente questo aspetto magico e soprannaturale: ce ne parli?

È la prima volta che mi avvicino così tanto al lato più tradizionale della Sardegna. Finora ci avevo sempre girato attorno lambendo l’argomento. L’aspetto magico e soprannaturale di certi racconti mi affascina fin da quando ero bambino. Ricordo mio nonno che mi raccontava della mamma del sole, o di quando da piccolo aveva incontrato il diavolo, l’ascoltavo curioso e terrorizzato. E in fondo è la stessa sensazione che ho oggi quando leggo raccolte di leggende legate alla mia isola. Ma il legame con la mia terra non si basa solo su quei racconti: volti, voci, odori, colori, è questo che lega indissolubilmente quello che scrivo con la Sardegna, è una questione di onestà, in Sardegna c’è tutto ciò che conosco bene tanto da poterlo raccontare compiutamente, c’è tutto quel che riguarda la mia vita fin dal mio primo respiro, e non saprei descrivere altro: se dovessi scrivere un libro ambientato su una astronave, l’astronave finirebbe per essere la Sardegna.

In Grande Nudo, ci sono meravigliosi passi in cui descrivi i luoghi della tua isola, sicuramente, ma anche nomi, modi di dire, tipici della tua terra. C’è un glossario, alla fine del libro, in cui si traducono, in maniera ragionata, termini dialettali che compaiono nel romanzo: mi sembra che non sia tanto un piglio di precisione semplicemente documentaristica, ma un aspetto, che si lega agli altri, che per me è accostabile a una sorta di ricerca etnografica: come è nata la decisione di introdurre termini dialettali nel tuo racconto?

Non c’è solo una lingua tradizionale con alcune varianti, ho scelto di utilizzare anche slang di origini, per così dire, meno nobili, in alcuni casi legati semplicemente alla ristretta cerchia delle mie amicizie d’infanzia. Dalle mie parti (ma credo ovunque) ibridare l’italiano con altre parlate è pratica orale quotidiana, ne viene fuori una sorta di esperanto della strada. Tutto è legato ai personaggi, la loro lingua, le cose che vedono o toccano, il modo in cui le chiamano, quello che hanno imparato, quello che sanno. Per restituire la dimensione dei personaggi non potevo che prendere questa strada. La ricerca linguistica è stato un percorso piacevole, divertente, istruttivo e il glossario s’è rivelato necessario per far capire a tutti, anche a chi non bazzica da queste parti, le minime sfumature del testo.

Cosa ci dovremo aspettare dopo Grande Nudo?

Di certo un film, il prossimo di Bonifacio Angius, per cui firmo la sceneggiatura. Le riprese sono iniziate nel 2017, e già non vedo l’ora di vederlo al cinema. Con ogni probabilità un racconto di fantascienza in un’antologia a tema. Scrivere fantascienza mi ha divertito molto. E, infine, sto già pensando al prossimo libro, ma è davvero troppo presto per parlarne.

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