Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Il suono dell’amore. Un racconto ispirato a Donatella Colasanti

Home / Rubriche / Malacodafiction: Il lato diabolico della letteratura / Il suono dell’amore. Un racconto ispirato a Donatella Colasanti

Correndo all’imbrunire

su di una strada

allentando la corsa

mi sedetti in uno scalino

la mia mente si fermò

ascoltai la mia voce

ed insieme alla mia

udii il suono

dell’amore.”

Donatella Colasanti

 La strada del ritorno

La sera stava calando come una carezza lenta. Era uno di quei tramonti stanchi, che sembrano nascere già con la nostalgia addosso. Donatella camminava lungo il viale alberato vicino casa. La strada era tranquilla, il traffico lontano. Solo il rumore morbido dei passi sull’asfalto e il fruscio degli alberi sopra di lei. Ogni tanto correva, ma quella sera no. Quella sera aveva deciso di ascoltare.

Aveva imparato da tempo che c’è un momento in cui bisogna fermarsi. Un punto esatto, come una soglia invisibile, in cui il corpo e la mente smettono di fuggire. Per lei quel momento arrivava spesso al calare della luce, quando il giorno si svuota e il silenzio si fa largo. Non era paura. Non più. Era presenza.

Scelse uno scalino qualunque. Un gradino consumato dal tempo, davanti a un muro segnato dall’umidità. Si sedette con lentezza, come se appoggiare il peso del proprio corpo su quel pezzo di mondo fosse un atto sacro. Lo era.

Chi la vedeva da fuori poteva pensare che stesse semplicemente riposando. Ma dentro di lei, qualcosa si stava muovendo con precisione chirurgica: la memoria, la voce, e quella piccola scintilla che non si era mai spenta. La scintilla che diceva: “Tu sei ancora qui”.

Donatella non lo dava mai a vedere, ma ogni sera portava con sé il peso invisibile di una storia che il mondo aveva inciso nella sua pelle. Non la pronunciava ad alta voce. Non c’era bisogno. Era lì, nella curva delle spalle, nel respiro trattenuto e poi lasciato andare.

A volte, ricordava. Ma mai tutto insieme. Non lo avrebbe sopportato. Lasciava che i frammenti arrivassero come fa il vento: a spirali. Un odore, una voce, la luce di un lampione acceso troppo presto. Eppure, ogni ricordo era solo uno strato. Sotto di esso c’era molto altro. C’era lei. Solo lei.

Quella sera, come tante altre, appoggiò le mani sulle ginocchia, chiuse gli occhi, e lasciò che la mente si fermasse. Poi, in quel silenzio, udì di nuovo la sua voce. E insieme a quella voce — chiara, semplice, viva — tornò quel suono profondo, intimo, che ormai conosceva bene.

Il suono dell’amore

C’erano parole che Donatella aveva imparato a non dire. Parole che la gente sussurrava alle spalle, che i giornali avevano usato troppo in fretta, che il tempo non aveva cancellato ma reso più pesanti.

Non era un segreto, la sua storia. Era diventata cronaca, poi caso, poi memoria. Ma nessuno, fuori da lei, aveva mai saputo cosa volesse dire sopravvivere davvero. Nessuno, se non chi è costretto a restare, dopo che la violenza ha tentato di cancellarti, può capire cosa significhi abitare quel silenzio.

Aveva diciassette anni. Il mondo che la guardava parlava di orrore, ma non conosceva il suo dolore. I titoli scandivano le parole con precisione fredda. Alcuni la chiamarono “miracolo”, altri “testimone”. Ma lei non si sentiva né l’una né l’altra. Lei era una ragazza sopravvissuta, e questo bastava.

Nel tempo imparò a rifiutare il ruolo che altri volevano cucirle addosso. Non voleva essere ricordata per ciò che aveva subito, ma per ciò che aveva scelto di diventare: una donna che resisteva, scriveva, amava. Una donna che non avrebbe lasciato che la storia fosse scritta solo dal sangue, ma anche dalla parola.

A lungo non parlò. Le domande erano sempre le stesse, e le risposte non bastavano mai. Finché un giorno scoprì la scrittura. Non come terapia. Non come fuga. Ma come atto di presenza.

Scrivere fu il modo per rompere il silenzio senza gridare. Le sue poesie non parlavano della notte del Circeo, ma la attraversavano in controluce. Nei suoi versi c’era il mare, la strada, la voce interiore. C’era una verità sommessa, mai esibita, mai svenduta.

Uno dei suoi testi più brevi diceva:

> “Ascoltai la mia voce

ed insieme alla mia

udii il suono

dell’amore.”

Chi sapeva leggere davvero capiva che in quelle poche righe c’era tutto. C’era il trauma, la lotta, la conquista. C’era il corpo che ritorna a essere casa, e non scena del crimine. C’era la mente che si libera, anche solo per un attimo, dal passato.

La poesia non le serviva per essere capita. Le serviva per non essere dimenticata da sé stessa.

 La stanza della memoria

La casa dove viveva Donatella non era grande, ma aveva finestre luminose e pareti chiare. Nessun lusso, ma un ordine attento, quasi rispettoso. Ogni oggetto sembrava avere un posto preciso, e ogni dettaglio parlava sottovoce. Un vaso spostato, un libro lasciato aperto, una penna sempre vicina.

Nella stanza in fondo al corridoio — quella che nessuno osava chiamare “studio” — c’era un tavolo semplice, un quaderno, qualche fotografia. Era lì che la memoria trovava spazio, senza dover più bussare.

Non aveva mai voluto rimuovere il passato. Sapeva che non si può cancellare ciò che ha segnato la pelle e l’anima. Ma aveva imparato a camminarci accanto, a farci pace, a conviverci come si convive con una cicatrice: non più ferita, ma segno.

Ogni tanto, apriva quel quaderno. Scriveva frasi sparse, mai troppe. Frasi che non volevano spiegare, ma restare. A chi le chiedeva perché scriveva, rispondeva: “Per non morire ogni volta”.

Le immagini arrivavano a onde. Non sempre violente. A volte erano lievi, ingannevoli: una tenda che si muove, il rumore delle cicale d’estate, l’odore del ferro. Non serviva chiudere gli occhi. Erano dentro.

Ma non aveva paura. Non più.

In quella stanza, la memoria non era nemica. Era una stanza della coscienza. Un luogo dove Donatella ricordava chi era prima, e chi aveva deciso di essere dopo. Non per pietà, non per gli altri. Per sé stessa.

C’era una fotografia ingiallita sopra la scrivania. La ritraeva giovane, con lo sguardo di chi ancora non sa cosa accadrà. Non l’aveva mai tolta. Non per nostalgia, ma per riconoscere la continuità. Per dire: “Quella ragazza è ancora qui. Sono io. Non mi avete portata via.”

Aveva capito che il dolore non sparisce. Ma cambia forma. Si fa pietra, si fa parola, si fa gesto quotidiano. Si fa testimonianza silenziosa. E ogni giorno, vivendo con dignità, Donatella ricordava al mondo che esiste un altro modo di essere sopravvissuti: non spezzati, ma presenti.

 Resistere è dire “io ci sono”

Resistere non era per Donatella una parola astratta o un ideale lontano. Era un gesto quotidiano. Un atto di coraggio silenzioso. Un modo di affermare, contro ogni pretesa di annientamento, che lei c’era, che non si sarebbe lasciata consumare dal dolore o dall’indifferenza.

La sua resistenza si manifestava nelle piccole cose: alzarsi ogni mattina, guardarsi allo specchio, scrivere una frase, ascoltare il silenzio, camminare. Ogni passo era una vittoria contro quel vuoto che tanti avrebbero voluto riempire con il loro giudizio o la loro pietà.

Non era facile. Non lo fu mai. Ma Donatella aveva imparato che la forza vera non è quella che urla più forte, ma quella che si fa sentire nel tempo, con coerenza e tenacia.

In un’intervista concessa anni dopo, quando la sua voce era ormai riconosciuta come portavoce di chi non aveva voce, disse:

> “Resistere significa dire: ‘Io sono qui. Sono viva. E il mio racconto conta’. Non per rivendicare dolore, ma per affermare la dignità di chi ha attraversato il buio e non si è perso.”

Quel messaggio non era solo per lei, ma per tutte le persone che vivono con ferite invisibili, per chi lotta ogni giorno per riprendersi la propria vita.

Donatella non cercò mai la pietà né l’attenzione mediatica. La sua era una testimonianza discreta ma potente. Un invito a guardare con occhi nuovi, a riconoscere che dietro ogni volto c’è una storia, e dietro ogni storia c’è una persona che merita rispetto e amore.

Resistere era dunque anche questo: un modo per trasformare la propria esperienza in luce, per accendere un piccolo faro in un mondo spesso troppo buio.

La fine non è buio

La malattia si era fatta compagna fedele negli ultimi anni di Donatella, ma non era riuscita a spegnere la sua luce. Anzi, nei giorni più fragili, quella luce si faceva più intensa, come un fuoco che arde lento ma costante.

La fine, per lei, non era mai stata un concetto di paura o resa. Era la tappa finale di un cammino attraversato con coraggio, onore e consapevolezza.

Sapeva che ogni cosa ha un limite, ma credeva fermamente che quel limite non fosse la fine della storia, bensì il punto da cui parte qualcos’altro: il ricordo, la memoria, la parola che resta.

Quando chiuse gli occhi per l’ultima volta, non portò con sé solo il peso della sofferenza, ma anche la forza di una vita intera vissuta con dignità. La sua testimonianza, raccolta in versi e silenzi, divenne un monito per chiunque voglia ascoltare: la fine non è buio, ma la luce che si propaga.

Donatella Colasanti non è soltanto la sopravvissuta di un atroce fatto di cronaca; è una donna che ha scelto di restare viva ogni giorno, con la sua voce, il suo corpo, la sua parola. La sua poesia è un canto di resistenza e amore, un invito a non dimenticare mai che dietro ogni ferita c’è la possibilità di rinascere.

Francesca Mezzadri 

Click to listen highlighted text!