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Ilaria Grando. Lettere minuscole

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Quanto può essere difficile dialogare con il proprio dolore e cosa può riportare alla luce quel tramestio di terra limacciosa? Cosa siamo disposti a rivelare di noi stessi quando mettiamo mano alle parole e, soprattutto, quando decidiamo di donare queste parole alla collettività?

Ilaria Grando, classe ‘92 (sia mai detto che serve un’età minima per ricucire cicatrici), con una presa di posizione netta verso la sua prosa parte proprio da qui: dalla parola.

Una parola che nel suo romanzo (Diario? Confessione?) d’esordio -mai così giustamente inserito nella collana Sperimentali del lungimirante editore TerraRossa- viene epurata e ridotta, a volte tranciata, a volte storpiata, spesso scarnificata. Una parola che può essere bisturi quanto piuma, che può essere freddo metallo o tiepido velo setoso, ma una parola che è sempre, rigorosamente, una parola minuscola.

Minuscole sono anche le iniziali dei capitoli così come di tutti i nomi degli uomini che gravitano attorno alle vicende della protagonista, mentre maiuscole -di certo non casualmente- saranno sempre le parole “LUCE” e “BUIO” utilizzate per spezzare fine e inizio del flusso narrativo. Una scelta di certo non casuale in quanto sarà proprio la continua alternanza tra sporadici stati di grazia nostalgica e profondi baratri interiori ad accompagnarci in questo mesmerico traghettamento da una sponda all’altra dell’esistenza.

Un traghettamento che richiama il moto oscillante delle imbarcazioni tipiche della città in cui la protagonista ha ambientato una parte della storia. Una Venezia dai cieli plumbei e calle silenziose che, per chi scrive, ha richiamato in più frangenti le liminali atmosfere di Anonimo veneziano del compianto Enrico Maria Salerno. Sarà proprio in mezzo a questo perpetuo infrangersi di onde contro i bordi dei canali che la nostra (autrice/protagonista, fa differenza?) si siederà per comporre.

«Scrivere a riva è pericoloso, scrivere è pericoloso»

Scrittura attiva, dunque, scrittura itinerante (da Venezia si passerà a New York e altre peregrinazioni frammentate), l’impressione di chi vi parla a lettura conclusa è che per trattare certe metastasi occorra un moto continuo di stati d’animo e di corpo.

Un corpo che non fornisce mai quiete, un corpo in cui non ci si riconosce: troppo magro, troppo alt(r)o, troppo scarno, troppo fragile. Un corpo incapace di guardarsi allo specchio, un corpo che deve attendere che il bagno sia pieno di vapore prima rinunciare ai propri vestiti, un corpo che non ha difese di fronte all’impietosa malattia e che si trasforma in tela per accogliere inchiostro altrui sulla sua pelle come se la sola pagina non fosse sufficiente a compiere la catarsi (in questo mi tornano alla mente due letture similari per intenti e visceralità: Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo, di Naja Marie Aidt e Indivisi: storia di una salvezza, Anna Adornato).

Ilaria Grando viene dal mondo dell’arte e ha studiato le vite di altre donne che del tormento hanno saputo plasmarne la materia per farne cattedrale e sepolcro, chi con le immagini (Francesca Woodman non è semplice musa ma presenza costante), chi con lo scandalo rivelatorio di una carnalità (Anaïs Nin) che non si ferma ai bigotti tabù convenzionali.

Convenzioni abbattute anche in questo caso da una prosa in prima persona che non si fa scrupolo di piegare la forma al flusso istintuale dando vita a un dialogo attivo tra pagina, autrice e lettore meritorio di essere condiviso a voce alta, distillato nel tempo, che diventa spazio intimo di (auto)analisi, accettazione, auspicio di rinascita.

Una promessa di ricostruzione dunque che può avere lo stesso potere salvifico di una camminata solitaria in mezzo alla bruma mattutina di una foresta sconosciuta, o nel rifugio tra le coperte di un appartamento i cui angoli ciechi non sono più baratri ma semplici, innocue ombre destinate a svanire alle prime luci.

Stefano Bonazzi

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Lettere minuscole

Ilaria Grando

TerraRossa Edizioni

15,50 euro — 158 pagine

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