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Il’ja Il’f e Evgenij Petrov. Le 12 sedie

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Figure lugubri: “Insomma, era una vecchia svampita, Klavdija Ivanovna. Come se non bastasse, aveva i baffi e ogni baffo assomigliava a un pennello da barba.”

Personaggi disinvolti: “Viktor Michajlovič Polesov era non solo un fabbro geniale, ma anche un geniale fannullone. Tra i meccanici di cui Stargorod abbondava, Viktor Michajlovič Polesov era il meno sagace e quello che più spesso pigliava granchi. E ciò a causa dei suoi bollenti spiriti. Era un fannullone in continuo fermento.”

Brillanti miserie: “Il meccanico, che a corto di soldi smaltiva la sbornia quotidiana dissetandosi direttamente alla fonte dell’acqua Narzan, versava ormai in uno stato pietoso e, stando alle indagini di Ostap, si era messo a smerciare al mercato svariati pezzi dell’attrezzatura teatrale.”

Usanze serali: “Eppure lei non vedeva l’ora di far visita al monumento a Puškin, dove giovanotti dai cappelli variopinti, pantaloni a sigaretta, rosei cravattini larghi e corti come salsicciotti e stivaletti a punta col tacco avevano già cominciato la serale battuta di caccia alle signorine”.

È in libreria Le 12 sedie di Il’ja Il’f e Evgenij Petrov (Voland 2025, pp. 496, € 22 cura di Emanuela Bonacorsi con illustrazioni di Carlo Cagni). Il capolavoro dell’umorismo russo torna sugli scaffali per la prima volta nella sua versione integrale, in una nuova, irresistibile traduzione.

Entrambi originari di Odessa, Il’ja Il’f e Evgenij Petrov – rispettivamente pseudonimi di Iechiel-Lejb A. Fajnzil’berg (1897-1937) e di Evgenij P. Kataev (1903-1942) – furono autori delle più importanti riviste satiriche del tempo. Durante un incontro a Mosca, decisero di unire le forze e scrivere a quattro mani. Da questa fruttuosa collaborazione nacquero numerosi racconti e, tra le opere più celebri, i romanzi Le 12 sedie (1928), Il vitello d’oro (1931, seguito del precedente) e L’America a un piano (1936).

Il romanzo è ambientato negli anni pittoreschi e ambigui della NEP, quando la sperduta città di N si trasforma in un palcoscenico di intrighi e avventure. È in questo scenario urbano, segnato dall’ombra dei bolscevichi, che una vecchia aristocratica lascia in eredità al genero Ippolit il misterioso segreto dei gioielli di famiglia nascosti in una delle dodici sedie del salotto della casa padronale espropriata.

L’ambientazione si estende ben oltre la città di N: la vicenda si dipana attraverso una geografia vasta e variegata – dalla provincia a Mosca, lungo il Volga e fino al Caucaso – offrendo uno spaccato della realtà sovietica fatta di ribaltamenti storici e di una società in fermento. Ogni luogo, dai paesaggi rurali alle metropoli in rapidissima evoluzione, diventa parte integrante del racconto, riflettendo il caos e lo spirito ribelle di un’epoca segnata da sconvolgimenti politici e sociali.

È un libro che, pur sottoposto nel tempo a censure, è riuscito a ingannare il potere, rivelando una società lacerata e in bilico tra due epoche, in cui ognuno combatte per vivere secondo i suoi bisogni e desideri. E invoglia ad assaggiare la libertà e l’umanità, oltre ogni ideologia.

Carlo Tortarolo

 

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CAPITOLO I

BEZENČUK E LE NINFE

 

Nella città di N, sperduto capoluogo di distretto, le barberie e le pompe funebri erano così tante da far pensare che gli abitanti della città non nascessero che per radersi, tagliarsi i capelli, frizionarsi la testa con il balsamo e subito dopo morire. A dire il vero, però, nella sperduta città di N la gente nasceva, si radeva e moriva piuttosto di rado. La vita della città scorreva placidissima. Le sere primaverili erano incantevoli, al chiaro di luna il fango luccicava come antracite, e tutti i giovanotti del posto erano così invaghiti della segretaria del Sindacato dei lavoratori dei servizi pubblici da impedirle di riscuotere le quote associative.

Le questioni d’amore e di morte non tangevano Ippolit Matveevič Vorob’janinov, sebbene proprio di tali questioni si occupasse per lavoro ogni giorno dalle 9 del mattino alle 5 di sera, con mezz’ora di pausa per il pranzo.

La mattina Ippolit Matveevič, dopo aver sorbito il latte caldo che Klavdija Ivanovna gli serviva in uno speciale bicchiere smerigliato, usciva dalla penombra della sua casetta per incamminarsi sulla larga via intitolata al compagno Gubernskij, inondata della sorprendente luce primaverile. Era la più deliziosa delle strade che si possano trovare in provincia. A sinistra, dietro zigrinate vetrine verdognole, scintillavano d’argento le bare dell’impresa di pompe funebri Le Ninfe. A destra, dietro finestre scalcinate, giacevano meste le polverose casse di quercia delle pompe funebri di mastro Bezenčuk. Più avanti il Salone Pierre e Constantin prometteva ai suoi clienti “cura delle unghie” e “ondulation a domicilio”. Appena oltre, un albergo con annesso parrucchiere, e dietro, in un largo sterrato, un vitello paglierino si sollazzava leccando un’insegna rugginosa appoggiata (come il cartellino ai piedi di una palma in un orto botanico) a un portone che si stagliava solitario:

Impresa funebre Benarrivati Anche se le pompe funebri erano parecchie, la clientela scarseggiava. La Benarrivati aveva chiuso i battenti tre anni prima che Ippolit Matveevič si stabilisse a N; quanto a mastro Bezenčuk, beveva come una spugna e una volta aveva perfino tentato di impegnare la sua più bella bara da esposizione.

La gente, nella città di N, moriva di rado, e Ippolit Matveevič lo sapeva meglio di chiunque altro, giacché era impiegato all’anagrafe, dove si occupava di registrare decessi e matrimoni.

La scrivania di Ippolit Matveevič assomigliava a una vecchia lastra tombale. L’angolo sinistro era rosicchiato dai topi. Le gracili gambette traballavano sotto il peso di voluminosi incartamenti color tabacco, dai quali si poteva pescare qualsiasi informazione sugli abitanti autoctoni della città di N e sui loro alberi genealogici (o, come soleva dire scherzando Ippolit Matveevič, ginecologici), cresciuti su quella grama terra di provincia.

Il 15 aprile 1927 – un venerdì – Ippolit Matveevič si svegliò come di consueto alle sette e mezzo e per prima cosa inforcò il vecchio pince-nez con la molla d’oro. Occhiali non ne portava. Un giorno, poiché aveva deciso che il pince-nez non era igienico, si era recato dall’ottico e aveva comprato degli occhiali senza montatura, con le stanghette dorate. Gli erano piaciuti fin da subito, ma la moglie (questo avveniva poco prima che lei morisse) aveva trovato che con gli occhiali fosse spiccicato a Miljukov1, e lui allora li aveva regalati al portiere. Il portiere, sebbene di suo non fosse miope, ci si era abituato e li ostentava tutto compiaciuto.

 

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