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In territorio selvaggio. Il bordo della scrittura. Intervista a Laura Pugno

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Il bordo della scrittura. Laura Pugno. In territorio selvaggio – Corpo, romanzo, comunità (Nottetempo ed., collana gransasso | trovare le parole, 2018). Intervista all’autrice.

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Gianluca Garrapa

Questo quaderno, In territorio selvaggio, porta il sottotitolo: corpo, romanzo, comunità. Come si spiega il filo comune che lega questi termini e il desiderio in questa triade che ruolo abita?

Laura Pugno

Cosa chiedono oggi a un libro, e in particolare al romanzo, le lettrici e i lettori?

C’è una formula che sintetizza una sorta di pensiero diffuso in quello che potremmo chiamare l’inconscio collettivo dell’editoria, e che lo scrittore Giulio Mozzi – uno dei migliori scrittori italiani contemporanei – si è occupato di raccogliere e di interrogare. Davvero editori, scrittori, e lettori desiderano un tipo di romanzo che sia “lineare, ben scritto, con un/a protagonista in cui ci si possa identificare senza indugi, che affronti difficoltà che fanno parte dell’esperienza quotidiana, e che contenga alla fine un messaggio di conforto”? Un romanzo-giardino?

O esiste ancora spazio, dentro e fuori del giardino – che come ci ricorda il paesaggista francese Gilles Clément, oggi è planetario – per il bosco e per un romanzo-bosco, che non ceda a nessuna definizione facile, e quindi potenzialmente astorica, reazionaria, di ciò che è naturale, ma che si interroghi sulle frontiere, interne ed esterne a noi, tra natura e cultura. Un romanzo che non tagli fuori tutto ciò che è scoperta, esplorazione, avventura, esperienza dell’oltre?

Tutto il saggio snoda questo filo comune, dove il desiderio si dà come qualcosa che resta nel fondo di un bicchiere, un residuo che non si scioglie e non si placa nelle forme ordinarie del conforto. Quel conforto che appunto, oggi il romanzo sembra fornire alla comunità dei lettori come comunità di corpi.

Anche se il mio è un saggio di domande, più che di risposte, appare chiaro che questi modi non possono essere sufficienti, proprio perché le domande che la scrittura, e la letteratura, e l’arte in genere, da sempre ci pongono, sono troppo ampie per ridursi a risposta. Ma nella ricerca della risposta, nella produzione di senso che avviene attraverso la bellezza, si dà una via, un filo su cui camminare. Siamo perfettamente consapevoli che quel senso è sovrapposto, o giustapposto alle cose, ai flussi di energia di cui siamo fatti ma che non possiamo percepire. Eppure, l’arte è il nostro mezzo, un mezzo fisico che coincide col mentale – perché il corpo coincide con la mente – per cogliere i bordi di questa percezione, lì dove la nostra vista si sfrangia, e scopriamo un oltre che non è stato ancora pensato, che forse non è pensabile ma che pure dobbiamo cercare di pensare, perché siamo su un confine che si muove, con noi e intorno a noi. Prima ancora che il romanzo, è da sempre la poesia ad avventurarsi su quel confine, e a ritornarne trasformata, ricca di tesori. Poi, quei tesori, il romanzo si occuperà di condividerli con la comunità.

G.G.:

Riflettendo sulla poesia, scrivi: Nella poesia, c’è sempre un tu. Anche quando è segreto, in qualche modo. E anche qui. Per Laura Pugno cosa significa il riferirsi al proprio ‘tu’ durante la stesura dei suoi appunti?

L.P.:

Il tu è una posizione mobile, insieme luogo del tu e luogo dell’io. Da sempre è così per me in poesia, e quando ho iniziato a scrivere questo saggio – scrivendo un saggio per la prima volta, perché questo è un libro che mi è stato chiesto, è una sfida che ho accettato – ho preso i miei strumenti dalla poesia, e li ho portati altrove. E nel farlo li ho visti diventare qualcos’altro, servire a nuovi usi, a nuovi scopi.

Questo è per me un libro molto esposto, in cui ho accettato di espormi più di quanto abbia mai fatto finora. Qualcosa che forse potrei continuare a fare in futuro. Nel tu, in poesia e qui, a essere interrogato non è solo il lettore, in quella che sempre ho immaginato come un dialogo, una conversazione: le domande le rivolgo in primo luogo a me stessa, de te fabula narratur, nel bosco mi perdo anch’io. Essere nel proprio testo per me non significa parlare di sé, ma mettersi in gioco. Parlando di sé, o parlando d’altro.

Ecco, quello che il tu descrive è una sorta di orizzonte della mente, uno spazio sempre spostato in avanti, sempre altro, dove entriamo come in una lingua straniera: anche nell’amore si entra come in una lingua straniera, si impara a parlarla, può diventare la nostra. Però nel fondo del bicchiere resta una pietra, bianca o dorata qualcosa che non si è sciolto, che non può sciogliersi mai, che continuerà a dare sensazione di vita: desiderio, struggimento, assenza più acuta presenza.

G.G.:

Sempre più piede prendono le realtà immersive, non solo la realtà aumentata e virtuale, ma proprio quel meccanismo social che tende sempre più, nonostante accomuni tutto e tutt*, bordo, a abolire passaggio e ritrovo, confronto e conforto: qualcosa di tremendamente nuovo sotto il sole, lì lì per esplodere: quali, secondo Laura Pugno, la scrittrice del territorio selvaggio, le ricadute di queste pratiche immersive sulla scrittura?

L.P.:

Raramente, nella Storia, le previsioni si compiono: sono le conseguenze inintenzionali di azioni intenzionali care a Popper,aprono spazi di smarrimento e imprevisto ma anche di libertà, a volte di libertà paradossale. Indubbiamente oggi siamo immersi in una sorta di acqua-etere, che è tutto intorno a noi, e la consapevolezza di cosa sia questo mezzo, la sua densità, scorrevolezza, forza, adattabilità, è quanto mai necessaria, è una consapevolezza politica. Sempre più necessaria, perché ancora, come i delfini, dobbiamo tornare in superficie per respirare. Forse un giorno al posto dei polmoni svilupperemo branchie, ma quel giorno non è ancora venuto. L’adattamento è mentale ma è anche fisico – la mente e il corpo sono la stessa cosa, e questo vale tanto più per chi scrive. L’essere immersi in questo mezzo può dare conforto, nell’inevitabile solitudine della scrittura, ma allo stesso tempo il farmaco, è implicito nel nome, può diventare veleno; allo stesso tempo si può diventare soggetto di un potere, e nello stesso tempo, quantomai oggetto del potere di altri su di noi. La scrittura appartiene tanto al visibile quanto all’invisibile, questa intermittenza le è necessaria.

G.G.:

La poesia, infine, e per cominciare, è un terzo paesaggio, l’analogia è ripresa dal paesaggista francese Gilles Clément e lungo il bordo di questa analogia si chiude-apre il quaderno: la stessa domanda che ci\si pone Laura Pugno: Poesia Terzo paesaggio?

Cosa è il Terzo paesaggio? Rispetto a cosa è Terzo?

L.P.:

Le pagine che descrivono l’analogia, la similitudine, ricca di potenzialità e forse, chissà, di possibili fraintendimenti, tra la poesia oggi – così abbandonata dal mercato editoriale e allo stesso tempo ancora così auratica – e il concetto di Terzo Paesaggio del paesaggista francese Gilles Clément, sono state tra le prime che ho scritto. Hanno tracciato un quadro, un abbozzo, è un’intuizione che sentiamo vera nel modo in cui sono vere le immagini. È un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica, piuttosto uno strumento, volendo anche imperfetto, per provare a pensare un qualcosa di nuovo. Per cominciare a pensare.

Scrive Gilles Clément nel Manifesto del Terzo Paesaggio: “Frammento indeciso del giardino planetario, il Terzo paesaggio è costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo. Questi margini raccolgono una diversità biologica che non è a tutt’oggi rubricata come ricchezza. [….] Terzo paesaggio rimanda a Terzo stato (non a Terzo mondo). Spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.”

Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere?

Più avanti, la definizione di Terzo Paesaggio si chiarisce, e ha a che vedere con l’altro concetto, importante nel pensiero di Clément, di Giardino planetario.

Giardino planetario è tutto il mondo vivente, la biosfera. È la sua finitezza a farne un giardino. A farla percepire come un giardino. Il Terzo paesaggio, rifugio per la diversità, si compone di insiemi primari, o riserve di fatto, luoghi in qualche modo rimasti allo stato primario, per quanto possibile; di riserve, istituite de jure, e di residui, o terreni in precedenza sfruttati, e poi abbandonati, ma anche margini incolti. Quest’ultima categoria è la più interessante.

Ecco, se riportiamo questa descrizione alla poesia, cosa accade in questo margine, in questo possibile “spazio comune del futuro”? e qui riappare il concetto di comunità, che è importante in tutto il mio libro, e in poesia è ancora forte, mi sembra più che in prosa: una comunità che si riconosce nella lingua ma che non si lascia delimitare neanche dai suoi confini? una comunità non chiusa, non spaventata, ma aperta alla diversità delle forme, a cui offre rifugio, nel momento in cui ovunque, altrove, questa diversità è scacciata.

Queste pagine hanno rappresentato l’inizio del libro, anche se poi il ragionamento si è svolto secondo un’altra piega. Forse sono lì perché rappresentano l’inizio di un nuovo libro, qualcosa a partire dal quale cominciare di nuovo a pensare.

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