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James Lee Burke anteprima. Arcobaleno di vetro

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Se hai i soldi, le gente si mette in ginocchio davanti ai tuoi venticinque centimetri; se non hai i soldi, te li tagliano”.

È in libreria Arcobaleno di vetro di James Lee Burke (Jimenez Edizioni 2025, pp. 480, € 22 con traduzione di Gianluca Testani).

Arcobaleno di vetro non è un semplice romanzo noir, è un tuffo grezzo e senza filtri nell’anima marcia e violenta del Sud profondo americano, quello che ti rimane attaccato addosso come sudore e paura. James Lee Burke, con la penna affilata come un coltello da macellaio, ci trascina dentro un mondo che puzza di povertà, disperazione e ingiustizia, dove la legge non è mai davvero dalla parte dei più deboli.

La lode ai sacrifici della vita: “Ci sono casi in cui le esigenze della vita o della professione richiedono che ci si ingrazi le persone che ci mettono a disagio, non per quello che sono, ma perché si teme la loro approvazione e la possibilità di essere più simili a loro di quanto si sia disposti ad accettare.”

Il protagonista, Dave Robicheaux, è il detective che non si è mai arreso al sentimentalismo patinato del poliziesco di serie B. È un uomo segnato, un reduce di battaglie interiori e fisiche, che si muove tra ombre di prostituzione, traffici di droga, corruzione e omicidi brutali. Ma è anche uno che prova ancora a dare un senso a un mondo che sembra fatto solo per schiacciarti, un uomo che lotta contro sé stesso tanto quanto contro i criminali.

Burke dipinge con una lingua viva e sensuale il paesaggio umido del Mississippi, le case scrostate, le piscine piene di segreti, i bar fumosi e l’odore acre della polvere da sparo:

Nel Profondo Sud ci sono dei momenti in cui uno si chiede se non si sia svegliato su un’alba nella primavera del 1862. E in quel momento si rende conto, con un senso di colpa, che forse non avrebbe trovato un evento del genere del tutto sgradito.”

Il suo ritmo è lento, ipnotico, come un blues che ti entra nelle ossa e ti fa tremare. Le donne morte, i piccoli criminali, gli “eroi” dimenticati. Tutto è tessuto in un racconto che non concede sconti, che non cerca redenzioni facili, arricchito dall’uso di figure retoriche brutali: «Non sia dispiaciuto per lui. Sarebbe capace di rubare il tanfo della merda senza farsi puzzare le mani. Se non le dà quello che vuole, me lo dica e gli procuro un bozzo in testa».

Arcobaleno di vetro è un assalto al politically correct, è il racconto di una verità scomoda, di un mosaico di vite spezzate e giustizia mancata, con una forza narrativa che ti scuote e ti lascia con il fiato corto.Se amate i noir con l’anima nera e la bellezza sporca della vita reale, questo è un viaggio che non si può perdere. Burke non si limita a raccontare un giallo: ci consegna la pelle consumata dalla polvere delle strade di periferia, la rabbia che ti brucia dentro e il dolore che si fa poesia amara.

Carlo Tortarolo

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La stanza che avevo preso in un vecchio quartiere di Natchez sembrava riflettere più New Orleans che una città fluviale del Mississippi. Le persiane ventilate erano avvolte da un tenue bagliore rosa, di una tonalità fresca come può essere l’alba a primavera nel Garden District, il cortile all’esterno sfiorato dalla nebbia che proveniva dal fiume, i muri pastello immersi nell’ombra e screziati di licheni sopra le aiuole, i vialetti pavimentati odorosi di pietra umida e della menta selvatica che cresceva a grappoli verdi tra i mattoni. Potevo vedere le ombre dei banani che si muovevano sulle zanzariere, l’umidità che si condensava e si intrecciava alle fronde come le vene di un tessuto vivo. Potevo sentire una sirena che fischiava da qualche parte sul fiume, un suono lungo e stridulo che veniva assorbito e smorzato nella nebbia, vanificando il suo stesso scopo. Un ventilatore a pale di legno girava lentamente sopra il mio letto, l’incandescenza delle lampadine ridotta a una fioca macchia gialla all’interno di paralumi di vetro smerigliato, scanalati in modo da assomigliare a dei fiori. Il pavimento in legno, la carta da parati sgargiante e le infiltrazioni di pioggia sul soffitto appartenevano a un’altra epoca, fuori dal tempo e incurante delle esigenze del commercio. Forse per ricordare questo fatto, l’unico orologio presente nella stanza era un meccanismo rotondo a carica manuale che non aveva né un coperchio di vetro né lancette sul quadrante.

Nel Profondo Sud ci sono dei momenti in cui uno si chiede se non si sia svegliato su un’alba nella primavera del 1862. E in quel momento si rende conto, con un senso di colpa, che forse non avrebbe trovato un evento del genere del tutto sgradito.

A metà mattina, in una pineta ribassata non lontana dal Mississippi, trovai l’uomo che stavo cercando. Si chiamava Jimmy Darl Thigpin, e il diminutivo o l’immaginario giovanile che il suo nome suggeriva, come tanti nomi del Sud, era decisamente fuorviante. Era un agente penitenziario a cavallo della vecchia scuola, il tipo di uomo che non era né buono né cattivo, come un’arma da fuoco non è né buona né cattiva. Era il tipo di uomo che andava trattato con discrezione e di cui non si indagava il quadro di riferimento privato. Per certi versi, Jimmy Darl Thigpin era l’uomo di legge che tutti noi temiamo di diventare un giorno.

Era in sella a un quarter horse alto almeno sedici spanne, con la schiena dritta, una doppietta calibro .12 ridotta appoggiata sulla coscia e la sella che scricchiolava sotto il suo peso. Indossava una camicia di cotone a maniche lunghe per proteggere le braccia dalle zanzare e un cappello da cowboy malconcio a corona alta, nell’apparente convinzione di poter prevenire il ritorno del cancro alla pelle che gli aveva raggrinzito un lato del viso. Per quanto ne sapessi, in varie fasi della sua quarantennale carriera, aveva ucciso cinque uomini, alcuni all’interno del sistema carcerario, altri fuori, uno dei quali durante una lite per una donna in un bar.

I detenuti sotto la sua responsabilità erano tutti neri, ognuno con indosso la maglia e i calzoni larghi da galeotto a grandi strisce bianche e verdi, qualcuno con le cavigliere di cuoio. Stavano abbattendo alberi e tagliando rami per bruciarli, accatastando i tronchi sul pianale di un camion. Il calore del fuoco era così intenso che non emetteva fumo.

Quando mi vide parcheggiare sulla strada, smontò e aprì la culatta del fucile, appoggiandolo sull’avambraccio sinistro ed esponendo i due bossoli nelle camere, scaricando di fatto la sua arma. Ma nonostante la dimostrazione di rispetto per la mia sicurezza, non c’era alcun piacere nella sua espressione quando mi strinse la mano, e i suoi occhi non si staccarono mai dai suoi detenuti.

«Grazie per averci chiamato, capitano» dissi. «A quanto pare, è ancora in grado di gestire tutto con grande fermezza».

Ripensai subito a quello che avevo appena detto. Ci sono casi in cui le esigenze della vita o della professione richiedono che ci si ingrazi le persone che ci mettono a disagio, non per quello che sono, ma perché si teme la loro approvazione e la possibilità di essere più simili a loro di quanto si sia disposti ad accettare. Ho continuato a credere che un giorno l’età mi avrebbe liberato da questo peso. Ma non è mai successo.

La mia introspezione non aveva alcuna rilevanza. Sembrava incerto sullo scopo della mia visita in Mississippi, anche se era stato lui a contattarmi per uno dei suoi detenuti. «Si tratta di quelle puttane che sono state uccise nella sua zona?» mi chiese.

«Non le definirei necessariamente in questo modo».

«Ha ragione, non si dovrebbe parlare male dei morti. Il ragazzo di cui le parlavo è laggiù. È quello con i denti d’oro».

«Grazie per l’aiuto, capitano».

Forse il mio amico agente a cavallo non era poi così male, mi dissi. Ma a volte, quando pensi di essere quasi fuori pericolo, che la redenzione stia operando in modo graduale in tutti noi, scopri che ti sei preparato da solo un’altra delusione.

«Il suo soprannome è Git-It-and-Go» disse Thigpin.

«Prego?»

«Non sia dispiaciuto per lui. Sarebbe capace di rubare il tanfo della merda senza farsi puzzare le mani. Se non le dà quello che vuole, me lo dica e gli procuro un bozzo in testa».

Jimmy Darl Thigpin aprì un sacchetto di tabacco e se ne riempì la mascella. Masticò lentamente, con gli occhi velati da un pensiero intimo o forse dal piacere che il tabacco gli dava. Poi si accorse che lo stavo osservando e piegò la bocca in un sorriso per indicare che io e lui eravamo membri dello stesso club.

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