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Jan-Philipp Sendker anteprima. La felicità silenziosa di Akiko

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L’ultimo romanzo di Jan-Philipp Sendker, La felicità silenziosa di Akiko, in uscita il prossimo 22 luglio per Neri Pozza, ha come protagonista la ventinovenne Akiko Nakamura. Lei abita a Tokyo, è laureata e lavora come contabile in un’agenzia pubblicitaria per moltissime ore al giorno; ha poche amicizie e, proprio a causa della snervante attività lavorativa, fatica a trovare del tempo libero per se stessa. È cresciuta con la madre che in vita era proprietaria di un wine bar francese, mentre il padre l’ha incontrato solo per pochi anni a domeniche alterne, ed è poi scomparso con scuse poco credibili e facendo perdere le sue tracce.

Un giorno, l’incontro casuale con Kento-kun, suo coetaneo ed ex compagno di classe, sarà fondamentale perché inaspettatamente cambierà la direzione della sua vita. All’epoca delle scuole lui era un bambino prodigio con il pianoforte ma, già in giovane età, è divenuto ed è tutt’ora un hikikomori, ossia una persona che ha diradato sempre più il contatto con il mondo esterno sino a isolarsi totalmente, rinchiudendosi nella propria abitazione. Esce solo di notte e in caso di estrema necessità:

Kento era Kento. Magari gli sarebbe piaciuto essere diverso, ma non cercava mai di fingersi qualcun altro. Non ci sarebbe riuscito neanche volendo. Era un hikikomori, da tempo ormai aveva smesso di cercare di piacere agli altri o di esaudire desideri e aspettative altrui. (..) Viveva in una gabbia o dietro un muro molto alto, ma non dietro una facciata”

Kento, dal suo mondo così chiuso che neppure la famiglia è riuscita a scardinare, le farà comprendere che un universo personale così serrato non è un universo vuoto di contenuti ed emozioni. Tutt’altro. E infatti, seppur con una spezzettata e del tutto peculiare comunicazione, da loro scaturiranno potenti intese: Akiko si porrà nuove domande esistenziali e scoprirà di possedere una prospettiva inconsueta nell’osservare il mondo circostante e, al contempo, riuscirà a far breccia nella spessa barriera che Kento ha eretto intorno a sé.

Lei comprenderà che per diventare adulti è indispensabile accettare la propria storia familiare, farsene carico, sino a provare compassione per le scelte fatte negli anni dai propri genitori. Sino ad arrivare a perdonarli, malgrado tutto. Nonostante tutto. Difatti, scoprendo tra i documenti archiviati una scomoda e incredibile verità sul proprio padre, si domanderà come sia possibile avere ancora fiducia in chi ci è accanto quando le persone che dicevano di volerti bene ti hanno ingannata pesantemente. Quando a tradirti è stata proprio tua madre, colei che hai amato immensamente e che pensavi di conoscere mentre adesso ti appare solo un’estranea.

Crescere significherà per lei anche lasciare andare definitivamente le ceneri di questa madre che, da quando è venuta a mancare tre anni prima, giacciono sulla mensola di casa in un’urna con la quale lei dialoga più volte al giorno. È arrivato il momento in cui entrambe, madre e figlia, ora in un differente stato della materia, possano continuare il cammino in reciproca libertà: Akiko non dovrà più soccombere al proprio passato:

Da due anni la sua urna era sulla piccola cassettiera di legno accanto al tavolo da pranzo. (..) Tutte le mattine ci accostavo un bicchierino di vino rosso, oppure ci mettevo davanti un kaki o un mandarino. La sera brindavo a lei con il pensiero e, quando ne avevo voglia, le parlavo.”

Akiko e Kento sono due solitudini che si scrutano e, piano piano, si accolgono reciprocamente grazie alla loro sensibilità e delicatezza di pensiero. Sono due anime che, partendo da esperienze di vita totalmente diverse, attraversando silenziosi dialoghi creati da mute parole, anzi, soprattutto perché in assenza di un linguaggio convenzionale, sanno sprigionare un’intensa e avvolgente energia mentre rimangono costantemente in ascolto di se stessi e del mondo. Con cautela disvelano giorno dopo giorno i rispettivi caratteri comunicando in

A

modo completo, assoluto: si accettano e si affidano con gioia l’uno all’altra con la certezza che mai verranno tradite le loro paure e le loro debolezze.

Probabilmente diverranno una coppia, non è certo, ma sicuramente il loro sarà un amore amicale unico che li metterà in comunione e che porrà come punto di partenza basilare e imprescindibile il rispetto per l’altra persona, un’estrema attenzione verso la sua personalità e il suo cuore. Sarà un rapporto intimo e sincero e il loro nucleo, scevro da mediocrità e superficialità, riuscirà a scardinare molti luoghi comuni. Sarà per entrambi un ricominciare con un rinnovato senso di appartenenza alla loro interiorità ma anche alla propria collettività senza l’obbligo di doversi appiattire per sottostare agli ingranaggi che la società mette in azione mentre cerca di uniformare e inglobare tutto e tutti.

Jan-Philipp Sendker descrive infatti una Tokyo rumorosa e piena di gente che si muove velocissima su binari personali prefissati al fine di non deludere mai le aspettative della socialità e mostra una realtà in cui l’incomunicabilità tra le persone si palesa in modi devastanti. Un esempio su tutti, quando i viaggiatori sono in metropolitana, divengono invisibili gli uni agli altri senza che ci si renda pienamente conto di quanto stia accadendo. In quei frangenti pone la sua Akiko nella condizione di provocare reazioni agli astanti come alzare la voce o muoversi in modo inconsulto, insomma qualsiasi azione lei possa fare per attirare su di sé l’attenzione con il risultato che, invece, nessuno la degna di un solo sguardo: tutti con la testa sul cellulare, e partecipando a un mondo che non è quello dove è situato il corpo in quel momento, appaiono come fantasmi.

L’autore, inoltre, fotografa un disagio dei ragazzi contemporanei: quando la sua protagonista beve alcolici, che sia birra, sakè oppure vino è in quantità molto spesso eccessive tanto che l’unità di misura è sempre superiore a due, a indicare e ribadire un’abitudine divenuta bieca consuetudine per le nuove generazioni.

La felicità silenziosa di Akiko collocando una trama del tutto originale e avvincente all’interno di una cultura che comprende di suo molti rituali, come è quella giapponese, affascina e incuriosisce il lettore anche inserendo nel racconto alcuni atipici e incredibili aneddoti. Tuttavia in alcune pagine i pensieri e le azioni della protagonista dovrebbero essere più sintetici per evitare di allungare troppo la scena e rischiare di perdere l’intensità emotiva raggiunta.

Chiara Gilardi

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Era il terzo anniversario della morte di mia madre. Una domenica.

Il primo lo avevo trascorso seduta sul suo letto di morte. Il secondo ero rimasta a casa da sola. Per il terzo mi ero riproposta di spargere le sue ceneri in mare.

Ogni tanto nei fine settimana estivi andavamo a fare il bagno a Tsujido Beach, la domenica il suo bar era chiuso. Le piaceva il mare. Il rumore delle onde. La lunga spiaggia di sabbia. A Tsujido era particolarmente ampia e da li si godeva una vista spettacolare sul monte Fuji. Mia madre preparava il picnic, io il necessario per la spiaggia.

©Frank-Suffert

L’acqua era piacevolmente tiepida, trascorrevamo il tempo nuotando l’una accanto all’altra o sedute sulla sabbia a guardare i surfisti. Io mi portavo qualche rivista oppure leggevo un libro sul cellulare, lei guardava in lontananza oppure passeggiava sulla spiaggia. La vedevo saltellare come una bambina o girare su se stessa, come se ballasse. Nel tardo pomeriggio tirava fuori il cibo e la birra dallo zaino, tutte le volte mi sorprendevo di come fosse riuscita a mantenerla fresca nonostante il caldo. Mangiavamo panini con uova sode e prosciutto, tamago e fragole per dessert. Osservavamo in silenzio il sole che si avvicinava all’orizzonte e si tuffava in mare. In quelle ore mia madre era soffusa da una leggerezza che di solito non le era propria.

Pochi giorni prima della sua morte le chiesi cosa volesse che facessi delle sue ceneri e lei mi prego di spargerle in mare.

Non esisteva un luogo più adatto di Tsujido per farlo. Me l’ero riproposto già più volte, ma avevo sempre rimandato.

Da due anni la sua urna era sulla piccola cassettiera di legno accanto al tavolo da pranzo. Vicino avevo messo una sua fotografia scattata il giorno dell’inaugurazione del suo wine bar a Shimokita. Sorride con un bicchiere di vino rosso in mano davanti alla porta sotto l’insegna rossa al neon. Lei stessa l’aveva scelta come foto commemorativa “ufficiale”. Tutte le mattine ci accostavo un bicchierino di vino rosso, oppure ci mettevo davanti un kaki o un mandarino. La sera brindavo a lei con il pensiero e, quando ne avevo voglia, le parlavo. Le raccontavo del lavoro. Di Naoko. Delle mie gite al mare o al parco di Inokashira, delle ore di lezione con madame Montaigne, dei miei progressi in francese e di come sentissimo tutti la sua mancanza. Nei primi mesi la vista della sua urna mi aveva turbato. Non comprendevo come quell’anonimo, banale recipiente di porcellana bianca potesse contenere i resti di mia madre. Era ridicolo credere che qualcosa di tanto meraviglioso, speciale, potesse entrare in un oggetto così semplice e anonimo. Poi mi dissi che lì non cera mia madre, bensì solo le sue ceneri. Con il tempo mi ci abituai. Mi sarebbe mancata, una volta che non ci fosse stata più. Non stava scritto da nessuna parte che le ceneri della propria madre andassero sparse il terzo anniversario della morte. Potevo tenerle con me tutto il tempo che volevo.

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Jan-Philipp Sendker, La felicità silenziosa di Akiko, Neri Pozza, pp. 304, euro 20,00, e-book euro 9,99.

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