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Jean-Marie Gustave Le Clézio anteprima. Midriasi. Seguito da Verso gli iceberg

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“Midriasi. Seguito da Verso gli iceberg” di Jean-Marie Gustave Le Clézio (Bibliotheka Edizioni, 2025 pp. 96 € 12.00), nella traduzione dal francese di Valentina Maini, esce nelle librerie il 10 ottobre. L’autore ripercorre un’esplorazione profonda sul testo, avviando un’analisi rarefatta e conturbante della visione del mondo, deformata dall’inganno, dall’inquietante estensione della coscienza e della percezione, lungo il cammino insondabile, enigmatico e mimetico delle parole. Il libro asseconda il valore assoluto di una scrittura potente e allucinogena, racchiude la poetica visionaria e simbolica, il contributo estetico ed etico di uno sguardo profetico posato sul significato altro, sulla prospettiva illuminata di ogni alterazione intellettuale, nella fusione tra la sperimentazione seducente della mente e la sua tensione espressiva, include la riflessione trasognata sulla dissonanza, continua e disorientante, dell’universo visibile. Jean-Marie Gustave Le Clézio realizza la corrispondenza sintetica di un’opera militante e alternativa che conduce il lettore in una rivelazione metamorfica e in una irrequietezza emotiva, divora la sensazione di traghettare, nella dimensione magica, l’angolatura privilegiata della conoscenza, decodifica le prodigiose concezioni nella spirale contemplativa delle voragini, spiega la personale ricognizione dell’anima, congiunta alla perdizione, tormentata dalla transitorietà umana. Concentra in un’ottica ammaliante, pervasa dalla tentazione illusoria delle impressioni, un commento acuto e alienante, in cui ogni associazione stimolante permette di comprendere l’indagine interiore in modo inedito e imprevisto, sfida sapientemente l’argomentazione della razionalità generando un contesto onirico, manifestando il movimento stupefacente della cognizione e il suo ipnotico coinvolgimento. Ingloba l’effetto sbalorditivo dell’ispirazione, intona la particolare sfumatura stilistica nell’accenno della natura sovrumana, nella trasformazione oltremondana dei significati trascendenti. “Midriasi” documenta gli effetti incisivi del processo frammentario e inafferrabile dell’esistenza, scioglie da una realtà aumentata l’ingrandimento della solitudine, diffonde la consistenza vagabonda di un’avventura poetica spontanea in cui la condizione tangibile è plasmata da quella chimerica, nella direzione eccentrica e sgranata di stupore delle pupille, considerate come travolgenti fari, come occhi incandescenti puntati sul limite estremo della dissolvenza. L’autore trascende il confine del contatto percepibile con i sensi con l’influenza stravolta delle immagini e dei deliri, nel dettaglio evasivo del vagheggiamento, inserisce, nell’omaggio alla letteratura psichedelica, il seme lungimirante di una concezione esistenziale allargata, lontana dai sentimenti dominanti di vacuità, abbraccia la responsabilità della sfera spirituale e la possibilità rivoluzionaria dell’ideale. Valica la destinazione tormentosa dell’identità, nella risonanza dell’esasperato margine di un’erranza parallela, varca la soglia del conosciuto verso la fatalità del distorto, addentrandosi nella pratica subliminale, creativa e terapeutica dell’arte narrativa, riconosce la forza descrittiva dell’inespresso nel linguaggio e nei suoi misteriosi e incantati aspetti, scuote il senso infinito dell’immaginario, dove l’incubo e il sogno disorientano il sentore vivido e sfuggente della vita, quando l’iniziazione alla saggezza va oltre il punto di vista di ogni risvolto psicologico.

Rita Bompadre

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Tutto ciò che vive è scritto. Ci sono segni ovunque. Sull’enorme lastra nera gli zigzag del fuoco, le faglie, le cicatrici, i graffi, i segni. Dietro, la lava in fusione mostra la sua gola rossa. Mai in precedenza gli occhi avevano visto così tanti segni. Piccole fessure oblique che filtravano l’universo e non lasciavano entrare altro che polvere. Lampi attraversavano il cielo, ruote di piombo fuso affondavano il perno nel centro

dello spazio, comete spazzavano il vuoto con la coda, stelle rosse si gonfiavano e si contraevano come cuori, e noi non vedevamo nulla. Eravamo nella prigione umana. Ma ora, eccoli qui, tutti i segni:

I cobra portano sul loro cappuccio il disegno

del serpente

Su ogni foglia d’albero c’è un albero

Su ogni ciottolo, il disegno dell’albero, il disegno

del serpente, il disegno della conchiglia

Sulla pelle, le piccole rughe a forma di croce

Il segno del gufo, a forma di H

Il segno dell’antilope, a due facce

Il segno del formichiere, a due code

Il disegno dell’acqua sulle rocce

Il disegno del vento sulla sabbia

Vediamo tutte le loro tracce, le comprendiamo nello stesso istante, non abbiamo più nulla da imparare dall’inizio della vita alla fine. Questa notte durerà. Non ci sarà risveglio, né crepuscolo. Siamo il più lontano possibile. È dall’altra parte degli specchi oculari, nello spazio libero. Siamo talmente grandi che non abbiamo più bisogno di viaggiare. Siamo nel luogo stesso in cui pensiamo, nell’esatto istante. Guardiamo il fiume, ci siamo. Guardiamo il cielo, siamo anche lì. Lo sguardo è

circolare, vede ovunque. Sono gli occhi ad essere cresciuti, ad avere avvolto il corpo. Dentro la bolla di cristallo, alla deriva nel mare. È da ciechi che si comincia a vedere.

Va avanti da così tanto tempo. La terra è diventata fredda e calma, senza tempesta,

senza fame, senza sofferenza. Le luci sono apparse gradualmente, ognuna emergendo

dall’ombra, quieta. Su metà del pianeta, non accade nulla. La vita è possibile senza

odio, allora, semplicemente con le sue migliaia di disegni. Non c’è più bisogno di fuggire, di nascondersi nelle caverne, di proteggere i propri occhi con occhiali scuri. È come non avere più né età né nome, e gli eserciti di poliziotti vestiti di pelle nera e armati di manganelli, con le loro mute di molossi, non potessero mai più trovarvi.

La notte ha cancellato la coscienza. Ha soppresso gli angoli, le trappole. Sulla pianura di penombre, le sorgenti della luce gocciolano dolcemente. Ne abbiamo sete, berremo, attaccheremo le nostre vene alterate ai limpidi ruscelli. Siamo soli? No, non è possibile. Lo sguardo circolare è così vasto nello spazio: vediamo con gli occhi degli altri. Siamo nel loro pensiero, nel loro desiderio, nel loro linguaggio. C’è un

solo occhio per tutti gli animali vivi del mondo, un solo occhio senza palpebre che non dorme mai.

L’occhio non si spegnerà. Vede in tutti i tempi e tutti i luoghi, macchia cieca che avanza nel cielo notturno. Vede tutti i mondi. Non sceglie nulla. È aperto, e guarda, con le sue fiamme alte trecentomila chilometri. Ecco perché la terra è nera, perché

tutti i colori sono possibili. Non c’è soggetto, non c’è padrone. Occhio, occhio

davvero della notte, immenso e freddo, grande giardino concentrico dove nascono

alberi e fontane, noi entriamo in lui, siamo al centro della sua sfera, nella camera ad alta pressione dove si fabbrica l’energia dello sguardo.

Poi c’è una specie di grido dello scorticato, e il sole ruggente si alza sopra gli alberi, a est, sale nel cielo bianco accompagnato dal rullo dei tamburi, in tutto simile a una pupilla dilatata.

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