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JONATHAN AMES INEDITO. CONFESSIONI DI UN GIOVANE SCRITTORE TIMIDAMENTE PERVERTITO

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Quando aveva vent’anni ha posato come modello per Bruce Weber, l’hanno fotografato in mutandine di seta rosa per una pubblicità di biancheria intima. Ha lavorato come babysitter e camionista, ha fatto il pugile e studiato scrittura creativa all’università. Oggi Jonathan Ames è tra i più acclamati scrittori americani: non rinnega nulla della sua gioventù spesa tra eccessi sessuali, situazioni al limite, che ha raccontato nel romanzo Veloce come la notte, l’ha imposto come un autore di culto: uno scrittore capace di richiamare centinaia di persone ai suoi reading, di far impennare gli indici d’ascolto ogni volta che appariva in tv ospite al David Letterman Show, di ideare commedie teatrali “Off-Broadway” di gran successo, di presentare i suoi libri durante i concerti del grande amico Moby. In questo racconto inedito per Satisfiction, Ames ci racconta proprio i suoi vent’anni fatti di sbronze e incontri incredibili come quello con il grande fotografo Bruce Weber. Le sue sono le Confessioni di un giovane scrittore timidamente pervertito: una versione maschile di Sex and the City in cui Ames mostra tutto il suo non comune talento con una gustosa e spumeggiante farsa a base di droghe e complessi edipici.

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Jonathan Ames

A vent’anni ero un bel ragazzo. All’epoca non sapevo di esserlo, ma lo ero. Sto guardando delle foto incredibili di quel periodo. Ero perfetto. Le foto erano perfette: sono la mia giovinezza che mi viene presentata come un fossile perfettamente conservato. Qual è l’origine di queste foto? Quand’ero una matricola a Princeton il mio migliore amico insisteva nel dire che avrei dovuto fare il modello. Credo che in un certo senso mi ammirasse e fosse innamorato di me, nel modo in cui i ragazzi qualche volta si amano l’un altro quando sono compagni di scuola. Sosteneva avessi un’aria eroica. Ero biondissimo e muscoloso mentre lui era scuro e magrolino. Continuava a tirar fuori la storia del modello finché, nell’autunno del secondo anno, si inventò qualcosa. Un fotografo stava facendo dei ritratti ad alcuni modelli usando il campus di Princeton come elegante sfondo, e il mio amico, con una bella faccia tosta, lo avvicinò e gli parlò di me dandogli il mio numero di telefono. Il giorno dopo, quest’uomo mi chiamò e ci incontrammo per un caffè. Mi disse subito che sarei potuto diventare un modello e che avrei potuto guadagnare molto bene. Lui era comunque uno strano ometto sui quarantacinque, alto un metro e sessanta, con un’orribile parrucca in testa, degli occhi marroni e grandi e un paio di baffi ben curati. Non sembrava del tutto per bene, ma non gli faceva difetto un certo fascino. Come molti fotografi, aveva un modo di fissarti che ti faceva sentire attraente, addirittura bello. Ebbe gioco facile quindi con la mia vanità. «Devi avere un sacco di ragazze, eh», diceva. Disse anche che per duecento dollari mi avrebbe fatto delle foto con cui sarei potuto andare a propormi a New York nelle agenzie per modelli. Accettai la sua offerta, pur consapevole istintivamente di essere brutto. Ho sempre avuto un naso enorme con cui la mia faccia non era riuscita a mettersi in pari fino all’ultimo anno di liceo e, anche allora, pensavo fosse troppo grande. Per questa ragione, ho passato anni a fare di tutto perché non mi si guardasse di profilo – se qualcuno mi dava un colpetto sulla spalla, mi giravo completamente, lasciando intravedere il mio profilo solo per un istante. Una visione frontale, pensavo, nascondeva le dimensioni fuori dal comune del mio naso; quello stesso naso che studiavo continuamente nello specchio del bagno di casa, utilizzando in contemporanea anche uno specchietto portatile, in modo da poter effettuare una diagnosi accurata, e da punti prospettici diversi, della mia proboscide. Provai a convincermi che il mio naso non era così grande e terribile, tuttavia non ci riuscii mai. Alcune persone soffrono di una visione distorta del proprio corpo. Io, del mio naso. Mio padre, tra l’altro, non mi aiutò con le mie insicurezze. Nel periodo della crescita, aveva tre soprannomi per me: Edipo, Dick Tracy e Brutto. «Hei, brutto, come va?» questo era il suo modo normale di apostrofarmi quando rientrava dal lavoro. E quando gli comunicai la mia ansia riguardo al naso e al fatto di essere brutto, mi prese in giro, dicendomi di non preoccuparmi perché assomigliavo a qualcuno di famoso – naso storto – Dick Tracy. La logica di mio padre si muoveva all’incontrario. Pensava che chiamandomi Brutto e Dick Tracy mi stava facendo capire che pensava fossi bello, ma da bambino non intuivo le sue intenzioni recondite. A diciannove anni, nella speranza di dimostrare che forse ero carino e non brutto, andai con questo strano fotografo col parrucchino ad Asbury Park, nel New Jersey, e mi feci fotografare. Non sorrisi mai perché pensai che sorridere rendesse il mio naso più grande; il fotografo mi fece un sacco di scatti, prevalentemente inquadrature da Mr Muscolo di me senza maglietta con addosso solo un paio di jeans, seduto su un pontile. In seguito a questa breve avventura ad Asbury Park, tuttavia, il fotografo scomparve con i duecento dollari e la pellicola non sviluppata. Lasciai messaggi sulla sua segreteria per alcuni mesi, ma alla fine mi rassegnai. Aveva approfittato della mia vanità che, in realtà, non era altro che profonda insicurezza. Dopo qualche tempo, però, alla fine della primavera del secondo anno, nel 1984, trovai le fotografie nella cassetta postale senza alcuna spiegazione per un simile ritardo. Non vidi mai più questo fotografo, ma bisogna riconoscere che sapeva fare il suo lavoro. Ero sicuro che in quella busta che mi spedì avrei trovato la prova della mia bruttezza, tuttavia quando la aprii, per capire quale fosse il risultato dei miei duecento dollari, rimasi scioccato nel vedere quanto sembrassi fico. Come faceva il mio naso a sembrare così piccolo? A quel punto, il mio migliore amico, che aveva dato il la a tutta questa vicenda assurda, mi spinse a mostrare le foto a delle agenzie per modelli di New York. Alla fine dell’anno scolastico, seguii i suoi consigli e guardai sulle pagine gialle di New York alla voce «agenzie di modelli/e». E, incredibile a dirsi, la prima piccola agenzia a cui andai dopo aver trovato l’indirizzo sulla guida, mi diede un lavoro e le cose accaddero molto velocemente. Un famoso fotografo, Bruce Weber, mi scelse per dei servizi che stava realizzando su degli atleti e io mi presentai come atleta – ero uno dei capitani della squadra di scherma di Princeton. Così, una mattina, mi lasciai alle spalle New York su un furgone, assieme a diversi altri modelli, diretti verso la casa di campagna di Bruce Weber. Uno degli uomini, un ex giocatore di football ed ex operaio edile, guardò tutti noi nel furgone e disse, rendendosene conto improvvisamente: «Ehi, siamo tutti biondi!» Per quanto non fosse un’affermazione geniale, era sicuramente esatta. La nostra giornata in campagna, ai miei occhi di studente di Letteratura, sembrava uscita da Addio a Berlino di Christopher Isherwood. In mezzo a questi grandi pini, in un bosco isolato, io e gli altri ragazzi biondi facevamo dentro e fuori da una piscina, nuotando e pompando i muscoli, in attesa di essere fotografati alla luce del crepuscolo. Il nostro ospite, Bruce, era timido, dolce e cortese. Me lo ricordo chiedermi con tono pacato quali fossero i miei scrittori preferiti e io ero così nervoso in presenza di una tale celebrità che non riuscii quasi a parlare. Penso di aver detto Fitzgerald, che è una risposta scontata e abusata, non importa quanto sia grande Il grande Gatsby. Mi fotografò da seduto su una bella altalena di legno con un asciugamano attorno alla vita. Il mio costume da bagno, coperto dall’asciugamano, era stato spinto verso il basso, in modo da scoprire la parte laterale del sedere e da dare l’impressione che fossi nudo.

Tutt’attorno era pieno di assistenti, Bruce fece rapidamente diversi scatti e notai che il suo pollice aveva una strana deformazione a causa di tutti quegli anni passati a ricaricare furiosamente la pellicola. Bruce mi chiese se volessi togliermi il costume. Aveva sollevato la questione in modo gentile, assicurandomi che non ero obbligato a farlo. Ci pensai su un secondo e poi risposi che non l’avrei fatto. Non me ne chiese la ragione, era un uomo comprensivo. Il mio rifiuto non era dettato dal pudore o dal timore di mettere a repentaglio la mia «carriera» agli esordi, ma semplicemente dall’ansia che il mio pene sembrasse piccolo. Le mie nevrosi avevano qualche punto fermo: avevo un naso troppo grande e un pene troppo piccolo. Bruce Weber, comunque, mi tranquillizzò sulla mia condizione di nasone. Disse che adorava il mio naso. E l’effetto fu quasi immediato – se a uno dei fotografi più famosi del mondo piace il tuo naso, significa che non può essere così brutto. Il che mi fa pensare che mi sarei dovuto togliere il costume: probabilmente sarei stato rassicurato anche sul versante genitale. La mia carriera da modello, iniziata più o meno con le foto di Bruce Weber, durò in tutto sei settimane. Nel corso di questo periodo, venni fotografato da un’altra leggenda della moda – si chiamava Horst – che mi fotografò per una pubblicità di intimo di Fernando Sanchez. Quando fui presentato a Horst, che andava per gli ottant’anni, il suo assistente mi disse di togliermi la maglietta. Lo feci e rimasi in piedi davanti al leggendario fotografo di Vogue con l’assistente che diceva: «Guarda, sembra una statua… E parla francese!» Horst non disse nulla, sorrise semplicemente e io ero troppo giovane per sentirmi umiliato. Nella foto comparivo in posa, con addosso solo dei boxer rossi di seta, ai piedi di tre bellissime modelle vestite di lingerie, e la pubblicità apparse alcuni mesi più tardi alle fermate degli autobus in giro per tutta New York. Guadagnai bene per queste pubblicità e mi offrirono un altro lavoro ben pagato: feci il modello per una divisa da football per una rivista di articoli sportivi. Ironia della sorte, la sessione fotografica era allo stadio del football di Princeton. Mi travestii da quarterback nella mia scuola e finsi di essere un eroe alla Fitzgerald che sconfiggeva Yale. Nel corso di queste sei settimane da modello, ogni volta che apparivo nelle foto, come con la prima serie di foto, continuavo a pensare che la farsa si sarebbe alla fine conclusa e la mia intrinseca bruttezza sarebbe stata scoperta. Ma, ogni volta, questi maghi professionisti dell’apparecchio fotografico riuscivano a tirarne fuori qualcosa di buono, ritraendomi dalla giusta angolazione, benché, comunque, continuassi a non credere di essere bello. Mi sentivo una sorta di impostore, forse per il fatto di non sorridere mai. In queste foto, tra l’altro, è evidente una certa paura nei miei occhi: il terrore che si trattasse dello scatto che avrebbe messo in luce chi ero veramente. Presi i soldi della lingerie e del football e me ne andai in Europa, grazie a un anno di congedo accordatomi da Princeton. Sarei dovuto andare a Milano, in Italia, a fare il modello, ma non mi feci vedere mai. Mi dissi che posare per qualcuno non era compatibile col desiderio di diventare scrittore, in realtà avevo paura. Avevo cominciato a bere molto e pensai che non sarei stato più capace di fregare la macchina fotografica, visto che ero sempre alle prese coi postumi di una sbornia. Tra l’altro, avevo sviluppato una nuova nevrosi: mi ero convinto che stavo perdendo i capelli. La mia paranoia riguardo al naso si era semplicemente spostata verso l’alto. Non mi stavo stempiando prematuramente. Mi stavo preoccupando prematuramente di stempiarmi. In sostanza, non andai a Milano; viaggiai per tre mesi e poi andai a vivere per qualche tempo a Parigi. Tornai a New York nel febbraio del 1985 e la mia foto era sui cartelloni di Fernando Sanchez, affissi in tutte le fermate degli autobus di New York. Una volta, mentre aspettavo il bus sotto una pensilina in vetro resina sulla Upper East Side, mi piazzai di fianco a una di queste: nessuno si accorse che ero il ragazzo sdraiato lì nella foto ai piedi delle tre belle ragazze. Andai anche alla Biennale del Whitney Museum visto che Bruce Weber partecipava all’esposizione con un’intera parete e c’era la mia foto sull’altalena, con il mio sedere bianco in bella vista. Vidi gli altri ragazzi che erano lì quel giorno. Alcuni di loro non avevano avuto paura di avere il pene troppo piccolo. Avevo vent’anni e ricevevo complimenti per il mio aspetto in strada e nei musei di New York, ma non provai mai più a lavorare come modello.

Nel corso dei successivi undici anni, il vizio di bere si aggravò e, per certi versi, deturpai il mio aspetto. Ero sempre così nervoso riguardo al fatto di diventare pelato che probabilmente fu io stesso all’origine di quella che era la mia più grossa paura – mi ritrovai con un’ampia pelata. Per questa ragione, non guardavo molto spesso le mie foto da modello – mi davano eccessiva consapevolezza di quanto avessi fatto del male alla mia bellezza e alla mia salute – ma, le poche volte che mi riusciva di avere una ragazza, mostravo spesso le mie foto. Speravo sempre pensassero, cavolo, era proprio un fico prima. Credo che starò sempre al suo fianco. Sfortunatamente, una delle mie ragazze, alla vista dei miei muscoli e dei capelli di un tempo, disse, fra il serio e il faceto: «Cristo, eri un fico. Mi piacerebbe ritagliare i tuoi capelli dalla foto e appiccicarteli sulla pelata». Non me la presi perché pensavo la stessa cosa. Ma di questi tempi le cose sono migliorate. Il problema del bere per il momento è in fase calante e la questione dei capelli, come quella del naso, sta progressivamente svanendo. Apparentemente non mi importa più di avere i capelli radi. Al momento, non mi sto facendo eccessive paranoie. Ma quando riguardo le foto da modello, mi sento triste. Ho pietà di quel bel ragazzo. Non sapeva quanto delizioso fosse e mi viene voglia di salvarlo da quello che sarebbe accaduto. Lo amo, in qualche modo. Vorrei che tornasse. Devo voler essere lui ancora. Devo voler essere ancora bello. Cosa si può provare a essere belli sapendo di esserlo?

Jonathan Ames

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