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Jorge Barón Biza anteprima. Il deserto

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Il deserto” di Jorge Barón Biza (La Nuova Frontiera, 2025 pp. 256 € 18,50), nella traduzione di Gina Maneri, esce nelle librerie il 14 febbraio. L’opera è considerata un’intensa e impressionante testimonianza di un terribile passaggio iniziatico dell’autobiografia, racchiude la segreta esclusiva di una labirintica e ossessionante eredità narrativa in cui la devastante suggestione dello smarrimento esistenziale e spirituale parla all’emarginazione drammatica dello scrittore. La trama assorbe l’angosciante sofferenza della madre dello scrittore, deturpata con l’acido dal marito, deforma il volto di una tragedia che frattura lo sgomento e la corrosione dell’anima, dipana il groviglio letale del nocivo e malefico deterioramento emotivo attraverso il solco dilaniato del vetriolo. Cristallizza la cicatrice smembrata sul destino dei personaggi, consuma l’intreccio inesorabile della deriva, discioglie il lineamento dell’identità in una voragine estrema, inghiotte l’abisso artificioso di un ritratto che trasforma la sembianza inquietante di una ignota natura, indomita e spietata come il deserto, indurita dall’ancestrale percezione dell’aridità e del nulla.

La qualità letteraria, immaginifica e simbolica di Jorge Barón Biza, scrittore argentino, morto suicida nel 2001, si nutre di riferimenti folgoranti di un disperato processo interiore che intacca la ricostruzione tragica e difficile della vita, colpisce violentemente il lettore con il sortilegio stregato di un castigo privato, di una sopravvivenza impressa ineluttabilmente nell’intonazione cupa e sconvolgente di una sventura pesante e solenne. Accerchia il richiamo opprimente dei demoni inconsci, ricompone il carattere suggestivo di uno stile penetrante e lancinante, riflessivo, dettato dall’esaltata sensibilità, dall’inclemente e brutale lucidità, dalla desolata e solitaria derisione nel linguaggio, dalla straziante e impressionante responsabilità delle parole e della loro memoria.

Jorge Barón Biza racconta l’umanità ai piedi di una deturpante discesa agli inferi, riconosce la parabola della decadenza nella traiettoria implacabile e inevitabile di una necessità alla verità, accoglie l’attesa di rivelare il realismo e il distacco del passato, dipinge, da un viso cancellato e incompleto, il tratto necessario per incoraggiare una coscienza narrativa annichilita dall’affranto tentativo di misurare, con la perversa scrupolosità verista, l’angoscia e la mostruosità. Il libro rintraccia la metafora coraggiosa dell’arte, configura la complessità delle tematiche di una condanna familiare, anestetizza la sfumatura minacciosa di una individualità che ancora sprigiona, nel mutamento, la celebrazione e il conforto nell’ispirazione salvifica della letteratura. Contiene la disarmante distruzione morale e fisica, compromette lo sgretolamento delle convinzioni e delle sicurezze. La spaventosa metamorfosi della storia ripercorre l’amara solitudine dell’autore, imprigionata nel declino di ogni documentazione impietosa e aliena della sofferenza. Jorge Barón Biza fa convivere il seme dell’irremovibile inclemenza con la fascinazione dei dettagli sezionati con la corrispondenza perfetta e impassibile di ogni limite umano. La scrittura di Jorge Barón Biza accorda l’urgenza funesta e allucinante degli eventi con la conseguente e delirante dissolutezza del disagio, apre la voragine in cui precipita, dischiude l’estensione misteriosa e inesplorabile delle sensazioni soffocate e inespresse, scopre il cupio dissolvi, dilata la vastità terrificante del dolore, la scissione delle direzioni perfide e nefande dell’uomo, converte l’osservazione imperturbabile sulle vestigia aride del profilo smarrito. Il romanzo annega tra le pagine la conversione della ferita, accompagna, in un vortice inarrestabile di perdizione, il tema dell’abbandono, la devastante maledizione dei comportamenti suicidari, il vizio assurdo di sottrarsi e frantumare la dispersione, infliggendo l’esilio da se stessi.

Rita Bompadre

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Il nostro medico aveva vari modi di osservare le ferite:le grattava, applicava un vetro nei punti più congestionati, ma alla fine si affidava sempre al tatto. Un giorno di primavera si espresse: ci sarebbe voluto un secondo lembo, avevamo guadagnato troppo poco. Eligia non disse nulla. Cercai di farle coraggio, le assicurai che altro “materiale”era proprio ciò di cui c’era bisogno per un lavoro perfetto, le spiegai che non aveva passato tutto quello che aveva passato per tirarsi indietro o scoraggiarsi ora. In realtà, Eligia non aveva mai dato segno di volersi tirare indietro o di essere scoraggiata, neppure in quel giorno di primavera. Semplicemente, non aveva parlato.

Quella sera bevvi molto. Dina mi chiese di accompagnarla da certi clienti che le avevano dato appuntamento per telefono, bravi ragazzi che conosceva.

Allora perché quieres che te accompagno?”

Sei mio amico e non hai una buona cera. Non voglio lasciarti solo.”

Chi te ha dicho che non sto bene? Lascia stare le diagnosi estupide.”

Dai! Hanno un bar con whisky di ogni genere.”

Arrivammo in una zona della città con edifici rivestiti di pietre levigate, tagliate o granito. Non c’erano superfici lustre e chiare, di quelle che abbondano a Roma. Dina prese dalla borsetta un mazzo di chiavi con delle iniziali dorate che non erano le sue. Entrammo in un grande portone buio. Nell’androne, in cui potevano circolare due automobili, c’era una luce vaga. Camminavamo al buio, in silenzio. Giunti in fondo, piegò a destra e premette l’interruttore della luce. Il fioco chiarore divenne una luce abbagliante che illuminò una vetrata enorme. Dall’altra parte, invece del cortile grigio che i miei occhi si aspettavano, apparve un giardino curato di inattesa frescura.

Non c’era nulla, fuori o nell’androne, che annunciasse quell’angolo rigoglioso.

Tutta l’architettura che abbracciava quel giardinetto si presentava minacciosa e plumbea, ma l’erica, il ginepro e i mirtilli tra cui spuntavano rododendri purpurei, e un orniello al centro, si ergevano impeccabili, benché non frondosi, davanti ai miei occhi. Erano lì in uno stato di latenza trepidante e si riservavano l’esuberanza e l’esplosione per quando fosse cominciata l’estate. Quella flora urbana, così civilizzata e prudente, aveva un modo collettivo di esistere, con forme e orientamenti che si completavano da specie a specie. Gli austeri ginepri sferzavano i romantici mirtilli e indicavano loro la direzione della libertà; i rododendri assediavano con il loro colore deciso la chioma sferica dell’orniello non ancora fiorito. Questa sapiente complementarietà creava, attraverso la relazione tra forme e colori, uno spazio armonico che sembrava molto più grande dello spazio che un geometra avrebbe chiamato “reale” o prospettico. Lo spazio del giardinetto si costituiva per collaborazione, ogni pianta chiedeva alla propria vicina e consultava tutte le altre prima di costruirsi la propria pienezza. Rimasi ipnotizzato, cercando di ricordare cos’avevo sbagliato.

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