Tutti i racconti sono fatti di silenzio. La cosa che più conta è lo spazio bianco.
Più semplice:
il vuoto, tra una pagina e l’altra, lo spazio cesareo della rilegatura, quello da cui il lettore, con la sua fantasia, tira fuori cose che il racconto contiene senza che l’autore lo sappia, conta di più di quello che lo scrittore riesce a mappare dentro i confini occupati dall’inchiostro.
Più chiaro:
in alcuni racconti ciò che non è detto parla più di ciò che si dice.
(Forse dovrei togliere “in alcuni”…)
Così Gli Extrastatali dello scrittore argentino José Retik che, mai casualmente, viene pubblicato nella collana Gli eccentrici delle Edizioni Arcoiris, collana curata da Loris Tassi che, in questo caso, è anche il traduttore del libro e che, sempre, si impegna a scovare i libri più coraggiosi del panorama letterario contemporaneo dell’America latina.
José Retik, che in Italia è praticamente un emergente, ma che in Argentina è uno scrittore noto, appartiene, pur con le sue specificità, a quella schiera di scrittori di cui fanno parte anche Ariel Luppino e Felipe Polleri.
Scrittori che guardano a Piglia, a Gusmàn e forse persino a Osvaldo Lamborghini come a dei riferimenti per la propria opera. Sono, Luppino, Retik e Polleri, dei moderni ammutinati, riferendomi qui a quel gruppo di geniali eccentrici che furono, appunto, Gusmàn, Lamborghini, Laiseca, Piglia e Libertella.
Autori, questi, come lo stesso Retik, di racconti tanto intelligenti quanto mutevoli, informi. Impossibile definire un genere, scriverne una sinossi soddisfacente, perché sarebbe come costringere un gatto a sedersi a comando.
Provando a lanciare, a chi non lo ha letto, una cima, indicando un molo a cui attraccare, Gli Extrastatali di José Retik ha qualcosa di Pasto nudo di William Burroughs, perché è un racconto ugualmente allucinato, dove si sviluppano piccoli mondi abitati da creature paranoidi, marziane, non del tutto antropomorfe che però si agitano dentro dinamiche spesso umane. I suoi Piki, i suoi Automi, assomigliano, per alcuni versi, ai più famosi Cronopios e Famas di Cortazar o anche ai Lillipuziani di Swift.
A differenza però dei testi citati, questo di Retik ha qualcosa di Ricardo Piglia. La sovrapposizione delle linee narrative e temporali, una certa malinconia…
Volendo raccontarlo, direi che è la storia del dottor Maurice Foudré il quale, in preda ai deliri della febbre, immagina un mondo dove vivono degli automi i quali si danno battaglia per avere il potere, dividendosi in fazioni e creando virus.
Per tutto il racconto il dottor Foudré, che rimane il protagonista di questa storia, non compare più di quattro volte. Nei restanti 26 capitoli, a vivere sono alcuni suoi deliri e altri, chissà, forse nemmeno suoi, forse di Retik o forse della storia argentina, metafore, penso, ma poi, per districarmi dalla banalità, dico che non sono metafore, non sono creature allusive. I Piki, per esempio, o gli extrastatali, possiedono una vita che non necessita di uno specchio deformato per riconoscersi.
C’è un personaggio, compare all’improvviso e poi scompare, che però, a me sembra, dica una frase che è come una scatola che ci viene consegnata senza chiave, una scatola coperta di stoffa che ha dentro un segreto che solo riusciamo a intravvedere attraverso il buco della serratura. Questa battuta la pronuncia un certo Emilio Baker, autore di un libro che Foudré consulta mentre raggiunge l’Argentina sopra una nave. Baker scrive: Io ho preteso di essere un pazzo di Buenos Aires e invece sono solo un uomo che ha capito.
Così Retik.
Pierangelo Consoli
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José Retik, Gli extrastatali, Edizioni Arcoiris, 2024, Pp.115, Euro 13,00