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Jucci. Intervista a Franco Buffoni

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Vista: L’aquila intanto, mi spiegavi / Sta sul fianco soleggiato della nuvola, / Quello che da qui non puoi vedere: cosa non si può vedere nella poesia-romanzo di Jucci?

Non si può vedere la quotidianità. Sono sempre le punte, le eccezioni a restare in arte, in poesia. È molto più difficile fare passare la routine, la sequenza dei giorni.

Tatto: Tanti angoli acuti da disegnare / Un collare / Di piccoli solchi spinosi / Nella carne: che ruolo ha la carnalità, e la poesia, nell’amore e nella morte di Jucci?

La poesia gioca un ruolo essenziale sempre, tanto che viene menzionata già nel testo iniziale:

Tu intervenisti lì

All’imbocco della valletta

Dove ad un tratto muta la vegetazione:

Solo licheni e tundra

Per qualche ettaro,

Forse la lingua di ghiaccio profonda

Che formò il lago

Lì sotto non si è sciolta,

Resiste tra i detriti coi resti dei mammut.

Forse il tempo tiene lì la poesia.

La carnalità gioca un ruolo fondamentale nella prima parte della vicenda (e dunque anche nella prime sezioni – o capitoli – di quel romanzo in versi che è Jucci). L’amore – un amore contrastato, combattuto – l’amore tra due persone che si sono anche dilaniate, è protagonista in tutto il libro, scivolando lentamente dalla dimensione iniziale dell’eros a una dimensione sempre più conclamata di agape, come comincia a manifestarsi la malattia di Jucci.

Udito: Io ascolterò quando ai rododendri / Dovrai spiegare, e al tiglio / Che sei rimasto solo: ascoltare e leggere, in che rapporto stanno questi due termini nel suo romanzo?

Jucci non è solo un romanzo di amore e morte. È anche un romanzo di formazione: la mia. Perché Jucci aveva otto anni più di me, era già laureata in tedesco quando la conobbi e faceva ricerca in campo etnologico e antropologico. Io avevo solo vent’anni. Dunque il decennio trascorso accanto a lei fu propriamente un decennio di formazione. E fu fondamentale per le mie scelte successive sia di vita sia intellettuali. Perché Jucci, all’inizio del nostro rapporto, mi infuse persino il coraggio di smettere di studiare diritto economia e matematica. Materie che, tutto sommato, non mi dispiacevano. Riuscivo anche discretamente. Quella, diciamo, era la vita col suo grigio. Jucci mi fece intravedere la possibilità di vivere una vita a colori smaglianti studiando le lingue e le letterature. E aveva ragione. Dopo più di quattro decenni, per me applicarmi ad esse è ancora e solo fonte di gioia, di vacanza, di fuga dal dovere. Certo: questo fu anche un modo per tenermi legato. Studiavamo assieme e lei era la maestra. E qui scatta l’analogia che oggi sono in grado di cogliere razionalmente e che allora misi in atto istintivamente. Quella scelta di studio – e dunque di vita e di lavoro – mi fece capire che potevo osare sempre. Sempre cercando di passare dal grigio ai colori. Fare sesso con le donne non era una brutta cosa. Era la vita col suo grigio. Ma potevo avere i colori… Quindi, paradossalmente, proprio il meccanismo che pose Jucci al centro della mia vita, fu lo stesso che mi sottrasse a lei.

Odorato: Le piaceva l’odore di lago di laguna / Di erba tagliata di fieno / Il profumo di miele del fieno / Quando “farà temporale da qualche parte / Qui non lo fa mai”: qual è l’odore di Jucci?

È un odore di freschezza e di giovinezza. Perché paradossalmente lei, che era più vecchia di me, avrà per sempre 39 anni; sarà dunque ferma per sempre in età giovane. Mentre io, che ero più giovane, poi l’ho raggiunta e superata. E oggi guardo le foto e penso: questa ragazza…

Gusto: Dopo che qualcuno mi ha assaggiato: che sapore avevano le parole di Jucci e che gusto hanno, adesso, nel romanzo?

Credo di avere già dato la risposta a questa domanda.

Il 1969, anno in cui hai conosciuto Jucci, è stato l’anno della strage di Piazza Fontana: che ricordo ha di quel 12 dicembre?

Il 12 dicembre del 1969, terminata la lezione (ero al terzo anno di università a Milano) presi il tram per tornare a casa. In tram leggevo Dopo Campoformio di Roberto Roversi, uscito da Einaudi nel 1962 e preso in prestito alla biblioteca. Senza alcuna guida stavo colmando i vuoti, scovavo i libri come un rabdomante. Ad un tratto il tram si bloccò: si bloccarono tutti i tram di Milano e gli autobus e le macchine. Correvano solo le ambulanze. La gente dovette scendere e continuare a piedi, senza sapere perché. Si diceva di una fuga di gas, che fosse scoppiata una banca. La memoria personale è connessa alla memoria collettiva per i tramiti più vari. Per me quel giorno è il libro di Roversi. Un libro sul quale sarei tornato tante volte negli anni successivi. Quella “liberazione” tradita: Campoformio come metafora della Resistenza scempiata…

I treni partivano, i treni arrivavano… “Al mare”, dicevano i treni…

I treni ridevano, cantavano, erano felici i treni…

Il cielo era con nuvole azzurre, all’improvviso… il cielo è diventato nero,

Il cielo è diventato fuoco, il treno non è più partito, il treno non è più arrivato…

Il treno si è fermato: è in ginocchio per terra…

Mai più! Mai più! Mai più!

Quando ascoltai questi versi ed altri analoghi – composti da Roberto Roversi per il trentunesimo anniversario della strage, letti dal palco di piazza Medaglie d’oro a Bologna dall’undicenne Farhana e dal quattordicenne Marco, con ottantacinque ragazzi di Marzabotto che rispondevano gridando: “Mai più” – mi chiesi: “Ma poi c’è stato, o non c’è stato, il colpo di stato in Italia?” Io ho l’età della Costituzione Italiana (e della libreria bolognese Palmaverde che fu di Roversi). Se fossi stato adulto allora, nel 1948, avrei militato nel Partito d’Azione. E anche oggi ideologicamente difendo con tenacia le ragioni dell’antifascismo liberale di Giustizia e Libertà. “Alla fine non c’è stato”, fu la risposta che mi diedi, “ma ci hanno a lungo provato”.

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