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Julia Kissina anteprima. Bubuš

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Quando l’amore diventa abisso e trascina con sé ogni forma di equilibrio, l’anima è costretta a scegliere: liberarsene o viverlo senza freni. Nel romanzo di Julia Kissina (Voland, 224 pagine,euro 18,05, traduzione di Valentina Parisi) la protagonista è divorata dalla passione senza alcuna possibilità di salvezza. La narratrice si innamora di Andy, poeta beatnik, ex alcolizzato, magnetico ed egocentrico. La libertà di quell’abbandono nasconde un desiderio profondo di appartenere a qualcosa: ad un uomo, ad un sogno, o semplicemente all’illusione di essere qualcun altro. Si lascia tutto alle spalle: un figlio schizofrenico, un fidanzato tranquillo, una vita già segnata, nel tentativo di riscrivere la propria esistenza. Ciò che appare come un atto d’amore si rivela una fuga da ciò che non la rappresenta, un tentativo disperato di reinventarsi.

Con ironia e crudeltà, Kissina ci racconta una donna che rinnega sé stessa, il suo disperato bisogno di cambiare pelle e sembianze per scoprire, alla fine, che ciò che ci lasciamo dietro continuerà a perseguitarci per sempre.

Il viaggio da Berlino a San Francisco rappresenta una trasfigurazione dell’anima. In questo spostamento geografico si riflette la domanda più intima del romanzo: chi divento, quando perdo le mie radici?

I luoghi prendono vita divenendo personaggi, incarnano il desiderio di rinascita e l’impossibilità di ricominciare davvero. La protagonista cerca di rimanere a galla tra correnti che non si lasciano attraversare, naufraga in un mare di possibilità perdute.

Kissina compone un romanzo tragicomico in cui l’amore ferisce e illumina, dove l’anima si perde per ritrovarsi, e dove bellezza e dolore procedono in un equilibrio precario. È una storia di fuga e di ritorno, di fantasmi che chiedono ascolto, di un’anima che cerca sé stessa proprio nel momento in cui si perde.

Nancy Citro

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Vivevamo tra fantasmi. Il fantasma principale era sua madre. All’inizio era un’adolescente di tredici anni. Ogni volta, a più riprese, ogni giorno e per decenni di fila, si ripeteva la stessa scena, nella Parigi occupata. Ordinavano a tutti di recarsi al Vél d’Hiv ad aspettare i treni che li avrebbero portati nei campi tedeschi o polacchi. Ma questo non lo sapeva ancora nessuno. Negli anni ’30 a molti era toccato convertirsi al cattolicesimo, quando gli era stata rifiutata la cittadinanza francese; tuttavia, quell’espediente non avrebbe salvato nessuno. La maggioranza degli “invitati” sarebbe finita comunque ad Auschwitz. Lui ripete questa parola con un’espressione speciale, come se masticasse un granello di senape. La sua futura mamma e la nonna escono di casa. La casa si trova accanto alla Gare d’Austerlitz. La nonna – all’epoca una donna molto giovane, dagli occhi vivaci e scintillanti e i capelli acconciati con cura – aveva cucito la stella gialla sui loro vestiti con tre punti, vale a dire con lo sputo. Lei prevedeva sempre tutto. Metà estate. Il momento ideale per passeggiate romantiche al Jardin du Luxembourg. La giovane donna indossa un abito di seta nero a pois bianchi e un berretto rosso. In spalla uno zainetto. La bambina indossa un vestito di cotone azzurro e sotto il braccio ha un coniglio di peluche – un ricordo del padre. Nonostante abbiano con sé una valigia, sembra che siano uscite per la passeggiata domenicale. I passanti si coprono gli occhi. In questo giorno, il 16 luglio 1942, la Francia oscilla tra paura e vergogna. Per le strade cammina una folla di persone altrettanto ben vestite, con stelle e fasce gialle. Le stelle sono diversissime fra loro. Alcune sono state fatte alla svelta e in autonomia, ricavandole da stracci, altre sono stampate, comprate in prefettura. Quelle dei bambini sono minuscole e sembrano piccole decorazioni. Le donne si sono profumate. Oggi hanno indossato il loro vestito migliore. Molte portano valigie di cartone. Alcune spingono carrozzine e biciclette, altre trascinano carrelli con le loro cose. Quand’ecco che più in là qualcuno si blocca.

Viva la Francia! Viva il grande popolo francese!” grida la folla. Al che c’è chi perde i sensi. La bambina butta la valigia sul marciapiede accanto a un lampione, e sulla valigia si gettano i curiosi.

Dentro non c’è niente! L’hanno presa per finta! Acchiappale! Dove sono?”

Questo non ci voleva. Si staccano rapidamente dalla folla. Si rintanano dietro l’angolo, si strappano di dosso le stelle gialle e le ficcano in un cestino. La donna con le labbra rosse e la bambina attraversano la città con l’ostinata caparbietà degli spettri. Una volta Sophie sentì una signora dire a sua madre:

Sua figlia ha gli occhi così radiosi. Solo i bambini francesi li hanno così.”

La donna con le labbra rosse e sua figlia riescono a sottrarsi alla retata. Per ore e ore camminano in direzione nord, verso la periferia. Cosa mangiano? Dove dormono? Non possono nascondersi da nessuno che conoscono, non possono dormire dai parenti – oggi perfino i pesciolini più piccoli sono finiti nella rete e adesso al velodromo li attende un destino terribile. Ma la donna e la bambina non smettono mai di camminare sulle loro gambe di ferro. Eccole, sono già fuori Parigi. Non dormono mai e non mangiano niente. Forse si nutrono dei fiori del tarassaco o di foglie d’albero? I loro occhi sono sempre aperti, non battono mai le palpebre. Finalmente raggiungono un incrocio serale. Le case tutt’intorno sono sprangate. Ben presto la città finirà e avrà inizio la foresta. Bevono da un ruscello e all’imbrunire arrivano in un villaggio. Entrano nella prima casa che vedono. Senza fare domande, i contadini preparano loro il letto. Sul tavolo di legno c’è una brocca di latte. La bambina lo beve, poi alza i grandi occhi diafani sulla contadina.

Che bella bimba. Quanti anni hai? Tra poco i pretendenti non ti daranno pace” dice la contadina. L’indomani le ospita un mugnaio. Ovviamente non dicono che sono ebree. E, altrettanto ovviamente, la donna tace sul fatto che suo marito è nella Resistenza. Non dice neppure che è sparito due settimane prima. Forse lo hanno fermato per strada. Arrestato. Lei ha paura di chiedere informazioni. Lui le aveva detto di non farlo. Lui le aveva detto che se qualcosa fosse andato storto, avrebbero dovuto lasciare la città. “Ma dove dobbiamo andare?” “Spostatevi da una città all’altra, in direzione del confine italiano.” Aveva lasciato loro del denaro. Ma da spendere con grande parsimonia. In caso di bisogno poteva vendere gli orecchini e l’anello nuziale. La donna si limita a dire: “Mio marito è un alcolizzato, sono fuggita da lui.” E mostra un livido sul polso. In realtà gliel’ha fatto un gendarme che le ha afferrato il braccio mentre provava a sfuggire al cordone. Per un istante l’ha fissata negli occhi. Poi lo sguardo gli è scivolato sul seno. Aveva un bel seno. “Perdoni, Madame.” L’aveva lasciata andare. Si erano infilate in un vicolo. Le strade note, eppure nelle ultime settimane così cambiate. Era stata costretta a correre, la bambina faticava a starle dietro. Le avevano riconosciute:

Madame Kushner?”

Si sbaglia. Mi chiamo Anne-Lise Fourier. Abitiamo in rue Balzac 12 e abbiamo fretta di tornare a casa.” Accanto ai loro nomi sulla lista dei deportati hanno già messo due punti interrogativi. Qualche giorno dopo la donna e la bambina bussano alle porte di un monastero, i muri antichi sono invasi dall’edera e dai fiori violetti della clematide. Una monaca dal volto plumbeo apre la pesante porta di legno e loro entrano nel cortile della chiesa. Le conducono in una cella fredda.

Di recente la nostra sorella Isabelle è morta. Era vecchissima. Doveva avere un cancro. Ma lei può restare qui con sua figlia per la notte, senza problemi.”

Dormono in due sul lettino di legno della sorella Isabelle morta di cancro. Le pareti della cella sono percorse da crepe. Alla fine dell’estate il soffitto è tutto una ragnatela. In un angolo c’è una brocca metallica con una rana dentro. Si riscaldano sotto una coperta ruvida di lana grezza. Sopra le loro teste incombe una grossa croce nera. La croce assomiglia all’uomo in piedi sul trampolino per i tuffi nella piscina dove Madame Kushner va ogni domenica. La mattina nel cortile si ode un trapestio e un chiocciare di galline. La madre di sua madre rimane a lavorare nell’orto del monastero. Non si mette più il rossetto, si occupa del pollaio, lava e stira la biancheria, ogni tanto è di turno in cucina. Quando il guardiano del magazzino accanto le offre una sigaretta, fuma fuori dalla porta del monastero, fornendo immutabili risposte alle sue domande indagatrici e cercando di non badare alle sue occhiate eloquenti. Ogni giorno, inginocchiata sul pavimento gelido della chiesa, la donna finge di pregare. Sussurra tra le labbra, imitando quelle parole. E la madre superiora osserva attentamente lei e la bambina che prega al suo fianco.

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