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l risveglio dal letargo dell’indifferenza

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L’opera dello straccione è il saggio di diploma all’Accademia d’Arte drammatica che Vito Pandolfi mette in scena con le scene (espressioniste) di Toti Scialoja all’Argentina di Roma l’11 febbraio del 1943, in piena guerra: dichiarata come una messinscena della settecentesca Beggar’s Opera di John Gay, in realtà è una versione della proibita Opera da tre soldi (1928) di Bertolt Brecht tra gli interpreti: Vittorio Gassman, Luciano Salce, Lea Padovani e altri allievi della Regia Accademia di Arte Drammatica di Roma; lo spettacolo considerato “provocatorio” dalla censura fascista non ebbe repliche. Per inciso, Pandolfi ha diretto Gli ultimi un film del ’63 il film è ispirato al racconto autobiografico di David Maria Turoldo “Io non ero un fanciullo” che con Pandolfi scrive la sceneggiatura e descrive la similvita o vicevita dei contadini friulani negli anni trenta; girato a Coderno (paese di Turoldo) con le persone del luogo, certo non attori professionisti [guardalo lo metto qui sotto]. Volevo parlare di questo? No, volevo dire della mostra che l’Auditorium dedica a Vittorio Gassman aperta fino al 29 giugno, giorno della morte di Vittorio nel 2000, a cura di Diletta D’Andrea, Alessandro Gassmann e Alessandro Nicosia. Skira ha pubblicato un ricco catalogo; questo che segue è il mio testo a proposito dell’opera che abbiamo realizzato con Vittorio: “Antologia personale di Vittorio Gassman. Poesia italiana dell’Ottocento e del Novecento. Con 4 CD Audio”.

“Ascoltarsi ascoltare” l’ho titolato: «L’arte, sosteneva Leopardi, accresce la vitalità dell’uomo. E in Mario Luzi, che ringraziamo per il viatico donato a questa nostra iniziativa, riecheggia lo stesso pensiero quando dice: “La poesia aggiunge vita alla vita. Una vita al quadrato”. Bastano queste premesse e promesse di felicità, di vitalità, a innamorarci della poesia, a sentirne la necessità in tempi duri e cupi come quelli che viviamo». Cominciava a farsi sentire così la voce di Vittorio nel primo dei quattro cd audio di Antologia personale di Vittorio Gassman. La partitura era composta da aprile del 1997. A maggio del 2000 (dopo oltre venti ore di registrazioni) tagliammo alcune interpretazioni, poi riascoltate, corrette, inserite, tolte definitivamente. Bisogna essere puntuali, diceva. Un giorno bisognerà scrivere un canto sull’arte di giungere al punto per Gassman.

Parto dalla fine, lo salutai sulla porta di casa di via Brunetti, gli dissi, per premiare la sua generosità: «Questo era un mio sogno. E si è realizzato». E lui: «Dicono male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si soddisfano i desideri, conseguito che ne abbiamo l’oggetto, ma si spengono, cioè si perdono e abbandonano per la certezza acquistata di non poterli mai soddisfare». «Leopardi, Zibaldone?». «Bravo, Leopardi, sì». Era l’ultima volta che vedevo Vittorio. C’era una particolare filia, ma anche divertita follia nel nostro argomentare; un giorno uscì un concetto siffatto: la tendenza del teatro della chiacchiera è di dar voce, in fuga dalla volgarità noi dovremo subtrahere anziché deducere. Giurammo con metafore alchemiche che confidavamo sul decanthare; ma tutto come fosse un gioco, senza la prosopopea accademica di chi si prende sul serio, coinvolgevamo perlopiù i tassisti che ci accompagnavano in via Libetta nello studio di registrazione. Un giorno scherzando, ma la voce mi tremava, gli recitai, imitandolo, l’epigramma di Marziale: «I versi che declami sono miei / Fidentino: ma se li dici male / ecco, diventano tuoi». «Anche se li dico bene diventano miei», chiuse Vittorio. E poi: «Sai perché stiamo facendo questa operazione? Te lo dico io perché: siamo obbligati a farlo dal disgusto per ciò che siamo costretti a pensare e a dire». Ed ecco che il suo volto, dal gioco, in un lampo si voltava nel dolore del quotidiano, aldilà della retorica classica, che Vittorio dominava con la sua prodigiosa memoria, da Cicerone del De oratore, dove il fine della poesia è delectare et movere, piacere e commuovere, all’Ars Poetica di Orazio che ci invita a delectare et docere, piacere e insegnare.

Vittorio in tre anni che ci siamo frequentati, un pomeriggio o due ogni settimana, non ha mai espresso una volgarità. Anche il coinvolgimento di Mario Luzi, non voglio mancare di rispetto a nessuno, fu un gesto giocoso e di apertura verso ciò che non ci assomigliava; comunque Luzi comprese e apprezzò che la nostra volontà era di accogliere la poesia, così come accade e si svela, nella gravità e nella levità, nell’illudere, nell’alludere ed eludere il dolore che ci attanaglia. Vittorio conosceva la metrica, sapeva che la poesia è un’arte soggetta al giudizio di Dioniso e Apollo, ovvero sottoposta alla passione e alla misura. Un pomeriggio telefonammo a Luzi dal mio cellulare, dopo tre caffè e dieci sigarette (e non avrebbe dovuto fumare!): «Che cos’è la poesia?» ci chiese con aria professorale da una distanza siderale il vecchio Luzi. «La voce della poesia è il timbro del risveglio», mi affrettai per togliere tutt’e tre dall’imbarazzo. E con inaspettato tono new age Vittorio concluse: «Il risveglio dal letargo dell’indifferenza». E Luzi poi lo scrisse nella prefazione al libro che accompagnava i quattro cd audio. E noi giù a ridere, screanzati.

Un lascito spirituale, Vittorio sapeva che era l’ultimo lavoro, e a modo suo lo proclamò – con l’ironia che sfuggiva ai semplici – un progetto per traghettare la poesia nel terzo millennio: un racconto personale sulla poesia italiana dell’Ottocento e del Novecento libero da pretese didascaliche e intenti professorali (“Dovrà essere un’opera lieve” indicava Gassman), ma col valore emblematico di un dono. Non di un compendio di letteratura e tantomeno di una summa poetica si tratta, ma di un’arbitraria selezione in cui solo l’amore per l’iperbole giustifica la volontà di riscrivere una poesia lunga due secoli. Accanto ai “grandi” Foscolo, Manzoni, Leopardi, Carducci, Gozzano, Pascoli, ampio spazio hanno i poeti dialettali Carlo Porta, Giuseppe Gioacchino Belli, Salvatore Di Giacomo, Cesare Pascarella, Trilussa, Eduardo De Filippo. E poi D’Annunzio, Ragazzoni, Corazzini, Montale, Quasimodo, Cardarelli, Palazzeschi, Pasolini, Campana, Ungaretti, Saba, Pavese. Cristina Campo, Alda Merini, Patrizia Valduga e Alfonso Gatto, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Vittorio Sereni, J. Rodolfo Wilcock, Giuseppe Conte, Giovanni Raboni, Edoardo Sanguineti, Andrea Zanzotto e Mario Luzi che apriva con la prefazione e chiudeva il quarto cd audio.

Con Vittorio iniziai le registrazioni il 19 aprile 1997, invitando poi alla dizione altre compagne e compagni di teatro, sempre col senso di un’operazione amicale: Franca Nuti, Roberto Herlitzka, Lina Sastri, Franco Giacobini, Ludovica Modugno, Paila Pavese e Paolo Giuranna. A intervallare le interpretazioni, mai sotto la voce, i frammenti musicali di un compositore, Nicola Piovani, che per Vittorio, diceva, avrebbe composto anche un brano per la segreteria telefonica.

Il risultato non voleva essere un’antologia, ripeto, ma un’unica nuova poesia, con cui traghettare chi ascolta dall’inferno dell’esserci al “gnessulogo” dell’assenza (il nessun luogo di Zanzotto) e dalla levità al gioco, dal pianto al riso.

L’opera, un cofanetto con un libro di 176 pagine e quattro cd, la presentai nella Sala della Protomoteca dei Musei capitolini in Campidoglio a Roma il 23 novembre 2000 con la famiglia Gassman: Diletta, Paola, Vittoria, Alessandro, Emanuele e Jacopo, e con Roberto Herlitzka, Nicola Piovani, Enzo Siciliano e il sindaco Francesco Rutelli. Herlitzka raccontò un episodio che ora considero fondamentale per comprendere il modo di lavorare di Vittorio, di cui fui testimone: seduti attorno a un tavolino nello studio di registrazione, stavamo ascoltando e riascoltando e riascoltando ancora la registrazione di una poesia e Vittorio si voltò e disse a Roberto con una fraternità commovente: “io ti voglio bene”; sentiva di condividere un modo di essere dentro la poesia, non come strumento, ma ambiente, acqua del ricordo, nell’esercizio continuo – ovvero il privilegio e la dannazione – delle prove senza fine, del fallimento di ciò che si vorrebbe dire ma poi non viene mai come ci sembra di riuscire a dire quando si è tentati di farlo.

Il pomeriggio della prima registrazione, in un chiosco su uno spiazzo fra via Ostiense e via Libetta gli lessi un passo di Roland Barthes, tratto dalla voce Ascolto dell’Enciclopedia Einaudi, diventò il nostro talismano (la cui radice télesma in greco vale ‘magia, rito’, da teléō ‘celebro’): «Udire è un fenomeno fisiologico; ascoltare è un atto psicologico. Nel primo tipo di ascolto l’essere vivente rivolge la propria audizione (l’esercizio della facoltà fisiologica di udire) verso degli indizi. A questo livello, nulla distingue l’animale dall’uomo: il lupo ascolta quello che potrebbe essere il rumore di una preda, la lepre quello di un aggressore; il bimbo, l’innamorato ascoltano i passi di chi si avvicina e che sono forse quelli della madre o dell’essere amato. Questo primo tipo di ascolto è, se così si può dire, un allarme. Il secondo è una decifrazione: quel che si cerca di captare con l’orecchio sono dei segni, e questo, certo, è proprio dell’uomo. Ascolto come leggo, ossia in base a certi codici. Per finire, il terzo tipo di ascolto – del tutto moderno, anche se ovviamente non soppianta gli altri due – non prende in considerazione, non si basa su segni determinati, classificati; non riguarda ciò che è detto, o emesso, quanto piuttosto chi parla, chi emette. Questo ascolto ha luogo in uno spazio intersoggettivo, dove “io ascolto” vuol dire anche “ascoltami”».

Diversi anni fa Valerio Magrelli su “la Repubblica” annotava che secondo un rilevamento Doxa circa un milione e mezzo di italiani avrebbe composto durante la propria vita almeno una raccolta di versi, con una percentuale del 24,8 tra i disoccupati e del 34,8 tra i giovani dai quindici ai venti anni. E secondo le stime di associazioni e blog sarebbero tra i venti e i trentamila i poeti praticanti in Italia. Non c’è dubbio che quel potenziale pubblico, spesso incerto, indeciso fra Pascoli e De Gregori, avrebbe necessità di dotarsi di strumenti per produrre uno scatto evolutivo nella propria competenza. Vittorio pensava a loro come a degli evangelisti. Quelli che scrivono (male) perché, in famiglia o nelle strutture educative, non sono stati educati all’ascolto. Ci sono centinaia di corsi per parlare in pubblico e altrettanti di scrittura, è giunta l’ora – diceva – di insegnare a leggere, non a scrivere, ad ascoltare, non a dire. Un po’ di silenzio, prego.

Pier Paolo Pasolini, spesso argomento di discussione con Vittorio Gassman durante la lavorazione di questi quattro cd (venti ore di registrazioni per distillarne quattro), raccontava che la poesia è una scarpa inconsumabile, che si sottrae alla mercificazione quotidiana ed è al di là dello specchio economico e mercantile della moneta. Sono scarpe che migliorano nel tempo: anziché deteriorarsi si perfezionano (oppure scompaiono nel nulla, nel vuoto che rappresentavano).

Ricordo: che altro posso fare, ventidue anni dopo, pensando al prodigioso dispositivo che voleva raccogliere due secoli di poesia come se fosse un unico testo? Ricordo le intenzioni, ricordo che si ragionava sulla creatività della poesia, cioè sulla sua natura. Si voleva avviare un progetto che potesse testimoniare la nascita di un nuovo (ma in realtà antico) genere letterario: la letteratura d’ascolto. La letteratura è confinata nella scrittura del libro da solo cinquecento anni, mentre per millenni ha utilizzato un altro mezzo, la voce. La forza dell’espressione orale. È sufficiente ricordare che «pubblicare» un’opera, per i latini, significava declamarla ad alta voce e la scrittura funzionava come semplice partitura del testo da interpretare. Che senso aveva un progetto di poesia orale? In un’epoca post-tipografica come quella che iniziava con il nuovo millennio, pervasa dal rumore, che senso aveva pensare a un oggetto volatile legato alla voce?

Ci si proponeva, in tempi di sordo consenso, di “fare le orecchie” alla pagina e si progettava di farlo utilizzando le stesse risorse dei media elettronici e mettendo in crisi il concetto di autore unico. Questa era la volontà, tutt’altro che egocentrismo attoriale. Avevamo chiaro quanto scrisse Paul Zumthor ne La presenza della voce: l’ascoltatore «fa parte» dell’esecuzione, naturalmente. Avevamo fra noi una specie di motto, di parola d’ordine, pronunciata da Simone Weil: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordi a queste grida».

Luca Sossella 

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