Ho contratto una malattia, credo mortale, forse sono nata storpia e sghemba con questo difetto. Mi piace la luce della Verità. Siamo in molti così malati, o meglio lo fummo, non così Socrate? Malato, pure brutto con le orecchie da Satiro, era anche un po’ sporco nel suo mantello consunto. Questo difetto lo condivide con Giacomo Leopardi. Antonio Ranieri non sopportava il suo puzzo. Qui mi distinguo, ho anche un difetto che loro non hanno: la doccia compulsiva. Però ho i sandali di Socrate e vorrei il suo cervello. Pur diversi, di genere diversi, siamo almeno in tre con questa fissa:la sophia. Insomma noi crediamo nel Phaos: l’effetto luce. Non quella dei Photoshop, che nascondano l’orrenda vecchiaia, ma quella che ci fa vedere pure i difetti.
Siamo difettosi tutti, abbiamo mangiato la mela, o ucciso e smembrato Dioniso, ed anche crocifisso Gesù. Come direbbe Eraclito, il mondo è barbaro, non solo quello non greco. Tutti diciamo bar-bar: parliamo una lingua straniera a noi stessi. Ognuno, dice Eraclito e poi Socrate, chiuso nella sua scatola, da cui vede il mondo in base alle sue esperienze, da cui sputa sentenze. Irrelati, tutti irrelati. Chiusi, ottusi, poche certezze di confort zone, a ripetere riti del quotidiano, in cui si perde la consapevolezza di sé, del tempo e dell’ Eterno. Tutti a sputare sentenze su quello che si approva o si respinge dell’altro e del Mondo. Tutti con i buoni consigli che diventano cattivo esempio. Il danno attuale: la sicumera del precetto e la violenza del gesto. Non arriveremo più alla luce, gli uomini preferiscono le tenebre. Più il pianeta Terra precipita nel diniego del Vero, nelle gare tra consorterie, nella crudeltà delle guerre, che sono anche qui in questo trenonord verso Milano da cui scrivo, ci guardiamo sospetti, attenzione ai portafogli e alle borse, ripetono gli altoparlanti, più scivolo in un’altra dimensione. Mi sto spostando inesorabilmente verso il mio destino: il mondo greco é la mia dimensione. Qui non c’è olezzo di mediocrità meschina, qui non c’é la parola barbara ; qui si prova ad essere se stessi. Qui c’è la faglia entro cui entra la luce; abbiamo rotto la forma, solo la frattura ci dá la netta percezione del tempo, del mio, di Socrate, di Giacomo.
La ripetizione della spesa e della chiesa ammazza il tempo. Pare che in quella dimensione del fare il tempo si azzeri. Almeno quello interiore: il fare al
posto del pensare, mentre Kronos distruttore mangia i figli e i figli dei figli. Fino a noi. Mentre il singolo pensa di autoconservarsi nei riti, non si accorge che tutto rovina. Dalla parola maledetta alle guerre. Ci sono tante guerre in corso, pare 57, ma il problema affonda nella preistoria: dalla clava a Caino, alla bomba atomica ai genocidi, questo è l’uomo. Un irrisolto. La nostra stessa nascita viene dalla cenere dei Titani, o dal falgo plasmati.Uscita dalla costola d’ Adamo o dal caos primordiale o dalla sparagmòs di Dioniso, mi sento come prima di un processo, già processata. C’è la clessidra d’acqua a misurare il tempo della mia difesa. Pari il tempo dei miei accusatori. Ma sono tre. Non andremo per le lunghe della legge italiana. Finora nessuno mi ha risarcita dei danni dell’investimento. Qui però si gioca la partita più interessante: vivere o morire per la Verità
. Guardo la mia clessidra d’acqua: scorre veloce più della sabbia, due minuti ed é fatta. Il tempo di abbracciare il mio pensiero complesso: è tutto interconnesso tra uomo e Natura, tra tempo ed eterno, aspettavo il kairòs della difesa. il coraggio di dire: forse parlo una lingua per voi barbara ma, qui dove soffia il vento, non ho corrotto i giovinetti, non ho altro Dio al di fuori del mio daimon interiore. Sto tra terra e cielo, non sono empia né iconoscasta, mi piace guardare dall’alto, come Socrate, Platone e Leopardi. Qui abbiamo memoria che si fa oblio delle vite passate, ma non possiamo cancellare il nostro Sé. Fuori dalla mischia é meglio, dai mercati e dai portici, con la sua parola malevola. Saliamo verso il monte con la piccozza come l’inetto di Svevo. Vi lascio nelle tenebre, sono condannata per i due min a turno dei miei accusatori. Meleto, Anito e Licone non sono mai morti. È tempo di andare: io a morire, voi a vivere. Ho immolato il gallo ad Asclepio all’alba. Lui mi salverà dall’unica malattia mortale e mi libererà dalla prigione della mia carcassa: la vita. Non ho la cicuta, ero già morta. Sono in connessione con L’ Eterno franto di Dioniso, con lui relata.