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La delicata sofferenza di Mario Benedetti

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Foto di Dino Ignani

Mi capita spesso di pensare alla delicata sofferenza di Mario Benedetti, gli occhi, un poeta verso cui provo un rimorso immedicabile per non essergli stato vicino quando ha tradotto per noi Michel Deguy e poi alla fine quando la combustione bianca delle parole sfiorava l’incomprensibile. Quella sera che gli dissi (al Teatro Elfo a Milano) tutti i colori del fuoco: amaranto, rosso sangue, rosso scuro, rosso, rosso chiaro, rosso pallido, rosa, arancione, giallo, giallo pallido, bianco, celeste. Ricordo la poesia “Per mio padre”, la grazia del suo dolore.

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Sta solo fermo nella tosse.

Un po’ prende le mani e le mette sul comodino

per bere il bicchiere di acqua comprata,

come tanti prati guardati senza dire niente,

tante cose fatte in tutti i giorni.

Intorno ha una cassettiera con lo specchio,

due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una [stufa.

Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,

un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.

Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,

gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi

e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio [di tutto.

A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,

un respiro che scivolava sui sassi.

A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di [lettura

vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.

A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato

e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,

gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.

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