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La laguna dei sogni sbagliati. Intervista a Massimiliano Scudeletti

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Massimiliano Scudeletti, La laguna dei sogni sbagliati, Arkadia edizioni, 2022, collana Senza Rotta.

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Nel nuovo romanzo di Massimiliano Scudeletti ritorna il protagonista del precedente lavoro, Alessandro Onofri – rivelando, in questo modo, la vocazione alla serialità di una scrittura che non è esente da influenze realistiche, (Scudeletti è anche documentarista e videomaker) – e lo situa nella Venezia degli anni ’90, nell’infanzia sognante e tremenda di un orfano e dell’eccentrica e affettuosa zia, amante dell’esoterismo. Cronaca e finzione, mistero e critica ambientale, si amalgamano in una struttura narrativa originale influenzata da maestri come Umberto Eco, Mark Twain, Stephen King, E.F. Wallace fino alla musica dei Portishead. Volontà e inconscio, contrappunto che delinea la linea spezzettata e sinfonica dei personaggi. La scrittura di Massimiliano Scudeletti cerca di porsi oltre i generi e si lascia guidare dalle immagini della memoria, dalla musicalità, dalla voce di un desiderio costante…

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Genesi e desiderio del tuo libro

La Laguna dei sogni sbagliati nasce dal bisogno di svincolarsi da un personaggio senza abbandonarlo.

Alessandro Onofri, dopo Little China Girl, sembrava avere tutte le caratteristiche per diventare un elemento seriale della mia scrittura. Per metterlo al suo posto, prima ho scritto Aiace alla spiaggia che è una sorta di biografia/romanzo epico su Gioacchino Cataldo – ultimo Rais, cioè capo e autorità spirituale dei tonnaroti di Favignana, una storia che con mafia cinese e il noir di Little China Girl ha ben poco cui spartire. Poi, ho deciso di riparlare di Onofri che è sempre rimasto un’oscura presenza nel mio orizzonte degli eventi. In una dizione meno letteraria aveva arti (marziali) e bagagli sul mio pianerottolo e ho sempre odiato gli sgomberi forzati.

Allora l’ho messo bambino in un romanzo di formazione che celebrasse coloro che ho amato, che mi hanno iniziato alla lettura e che mi hanno lasciato. Volevo per loro magia e non elegia, qualcosa che gli ricordasse gli autori che amavano. Soprattutto una riflessione sul male in cui mi ero imbattuto.

Negli anni ’90 la mia carriera di video maker era a una svolta, il lavoro che mi veniva offerto più spesso era di andare a girare nelle cupe vampe del conflitto jugoslavo. Da una parte, l’idea mi attraeva come un pozzo oscuro: la prima guerra europea, i grimoire razziali che emergevano dai secoli freschi come se fossero appena stati scritti, ma dall’altra temevo di bere quell’acqua perché sapevo che mi avrebbe avvelenato. Mi hanno chiesto se avessi paura. No, temevo mi piacesse vivere la guerra senza averne la responsabilità morale.

Proprio in quel periodo, la provincia italiana, sull’orlo della rivoluzione di Internet, era scossa da episodi che la stampa rubricava nel satanismo – i “bambini di Satana”, il caso di quelle due ragazzine che uccisero una suora asserendo che fosse stato il grande maligno a spingerle, la noiosissima querelle sulla musica satanista –  e allora mi passò per la mente l’idea di un racconto dove membri di una congrega satanica s’imbattono in una pattuglia di disertori usciti dal massacro di Srebrenica. Forse questa è la genesi de La Laguna dei sogni sbagliati: è davvero necessario un male metafisico a fronte dell’umanissima malvagità? Il resto è Le avventure di Tom Sawyer, In viaggio con la zia, Il pendolo di Foucault, It, Zia Mame. E.F. Wallace che cerca il grande romanzo americano che non arriva, Junot Diaz che dopo averlo scritto, tace. Poi partono gli accordi dei Portishead e so di aver scritto dell’avventura di un ragazzino.

Quando scrivi, godi?

Pubblicare, far conoscere il tuo libro è uno sport di squadra. Scrivere, no. Sei con un asciugamano attorno al collo, con la testa appoggiata alla lamiera dell’armadietto, seduto su di una panca dello spogliatoio. Cerchi di svuotare la testa mentre le frasi si rincorrono. Ti affidi alla memoria muscolare dell’inconscio e speri che quella e il mestiere ti consentano di concludere l’incontro. Ti cali in quella determinazione che i cinesi chiamano ‘Ji’, intenzione. Poi saltelli, non saluti. Può arrivare il colpo a freddo della frase inappropriata che ti porterà a una giornata vuota. Oppure: ‘fatto’, come dice Féraud nel film I duellanti ferendo l’eterno avversario. Finisce in maniera veloce e quello che volevi dire è lì che ti guarda dallo schermo. Flawless KO. È finita e ti senti svuotato con quella sorta di languore post coitum dove tutto è un po’ malinconico. Più nel senso tedesco del Fernweh, del volersi trovare in un luogo dove non sei stato, più che lo struggersi per un passato.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

«Ma i fantasmi esistono?» Alessandro continuava sulla sua strada.

«Tutto intorno a noi c’è qualcosa d’invisibile che possiamo decidere come percepire».

«È come quando dici che dobbiamo vedere oltre, oltre l’aspetto delle cose?».

«Proprio così». Batté le mani soddisfatta: «Di una cosa magica si può dire che è strana, bella o misteriosa, e non solo se è vera o falsa. Per alcuni non è fondamentale. Quelli che scrutano le ombre non hanno niente a che vedere con gli zotici che dividono il mondo in vero o falso. Il vero cacciatore di ombre, il vero Schattenjäger, ricerca il lato inconsueto delle cose e alla certezza della luce del mezzogiorno preferisce il crepuscolo».

Un brano che potrei dire di aver scritto in piena trance agonistica per continuare il discorso di prima. Poi, sono poi venuti altri a dirmi che per loro era il senso del libro. Non me ne ero accorto.

Invece c’è un pezzo sulla determinazione a recuperare la memoria che contiene tutte le mie idee sulla scrittura d’avventura italiana che non deve scimmiottare quella anglosassone. Mi piacerebbe che si dicesse: “come scrive Scudeletti?”. Così:

Aveva poco da ricordare, Alessandro, poco. Il dramma vissuto aveva scavato un buco nero nei suoi ricordi. L’aveva sempre affascinato la teoria che la zia gli aveva raccontato una volta come se fosse una fiaba: la vecchia stella che, stanca di emettere luce, collassa al suo interno e si fa più piccola, attirando la sua massa mentre tempo e spazio perdono significato.

Così quel poco che aveva era stato inghiottito.

I suoi genitori non gli avrebbero raccontato se da neonato li lasciava dormire o meno, né quale fosse stata la sua prima parola o a che ora fosse nato. Tutte quelle cose che i bambini, gli altri bambini, si sentono ripetere per anni nel tedio delle giornate di festa, fino a che non diventano parte della loro vita e, ripetute, acquistano concretezza coagulandosi in qualcosa di più di un ricordo personale: in un uomo o una donna.

Del resto, anche di mamma e papà sapeva poco: qual era il loro film preferito? Com’erano prima che arrivasse lui nelle loro vite? Avevano ballato da soli, bevuto, e si erano seduti come se non esistesse il mondo intorno a loro?

Una cosa però la ricordava. In una sera come quella, una sera dagli stessi colori e profumi, mano nella mano in mezzo ai suoi genitori, si erano fermati davanti a un baracchino che vendeva libri usati e suo padre gli aveva detto: «Prendi quello che vuoi».

Il libraio era vecchio e stanco, stretto in un grembiule nero fuori dal tempo, come il custode di una scuola antica. Alessandro aveva scrutato quel mare di carta, di copertine, di colori come a cercare un orizzonte. Sillabava tra sé i titoli assaporandoli, come davanti al più grande dei misteri. Alla fine aveva deciso per un libro piccolo, quasi un giocattolo, La carica dei 101, con la cattivissima Crudelia che spiava i piccoli e grassi dalmata. In quel momento, nell’aria ferma, conduttrice che precede i temporali di fine estate, era echeggiato il fischio di un treno, come un avvertimento.

«Fra poco pioverà, l’autunno sta arrivando», disse suo padre, ma non ne ricordava bene la voce.

Nella felicità di quell’attimo, di quel tramonto, anzi di quell’inizio di notte, c’era un’aria viola e umida, con una vibrazione di freddo appena accennata che avrebbe ricordato per sempre. Quando l’avesse percepita di nuovo, d’ora in avanti avrebbe saputo che l’estate era finita. Certo, ci sarebbero state altre giornate di caldo impietoso, altre magliette, e pelle abbronzata ed esibita, ma sarebbe stata un’inutile lotta contro ciò che ormai era annunciato.

Eccolo il suo primo ricordo sensoriale, ed era struggente, perché era solo in mezzo al nulla.

Decise che quel nulla qualcuno avrebbe dovuto riempirlo. Loro glielo dovevano. Sapeva soltanto che lui doveva dire a sua madre e a suo padre quello che non aveva potuto.

Quindi non fu attirato con l’inganno, e non fu il coraggioso intento di salvare gli amici a spingerlo, ma la determinazione a evocarli. Era quella l’unica strada per tentare di ritrovare una carezza dei suoi.

E allora si allontanò da via dell’Ingegneria, trafficata da autobotti e camion simili a mostri preistorici. Svoltò per quella che era stata una strada di campagna, circondata dalla palude, dirigendosi verso un capannone abbandonato ancor prima di essere terminato. Era solo l’inizio della decadenza di tutta quell’area: un domani il ferro sarebbe arrugginito, il cemento sarebbe stato intaccato da una nuova lebbra e le strade si sarebbero spaccate rivelando macchie di terra contaminata. Vetri e plastica avrebbero invaso i dintorni, sparpagliati come rifiuti sulla spiaggia spinti dalla risacca dell’abbandono: ma tutto ciò ancora doveva accadere. Alessandro camminava e cantava a bocca chiusa. Era una nenia, una litania o una ninnananna che inconsciamente emergeva a proteggerlo?

A ogni passo, lui e il mondo circostante mutavano come nei fumetti della Marvel. L’erba virava di colore, gas azzurro usciva dalle zolle come fumo da comignoli piantati al centro della terra. Funghi grandi come tartarughe rilasciavano spore color zafferano. Fosgeni incolori e inquinanti purpurei si mescolavano nel suo corpo reagendo e, invece di avvelenarlo, gli conferivano i superpoteri che ogni bambino sogna.

Chiunque avrebbe tremato a sapersi lì da solo, ma in una condizione di malattia può irrompere un coraggio che si trasforma in epica alla faccia del buonsenso. E per Alessandro, vivere senza ricordi era più che un morbo, era un peccato mortale.

Non si era neppure chiesto se avesse un’alternativa. Battersi nel cortile della scuola, sconfiggere quei bulli dei ragazzi più grandi, affrontare il male minore e diventare uno di quelli che non si sono piegati, che hanno saldato i loro conti. Questo sarebbe stato più semplice da accettare per gli altri, ma lui avvertiva un’ambizione maggiore.

Era un’ambizione che, forse non gli era chiaro, poteva perderlo, dannarlo; poteva svuotare per sempre la sua vita. Ma in realtà, come sua zia aveva avvertito con una morsa gelida di consapevolezza al cuore, lui era già perso.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Io faccio cose per alcuni un po’ strane: per esempio scrivo sempre la fine di un romanzo prima del resto, non per scelta ma perché mi è chiara fin dall’inizio e ne ho la riprova. Tutti i romanzi di cui non ho scritto la fine sono ancora lì con quegli occhi da uccelli con l’ala spezzata. Altra cosa un po’ anomala è che io scrivo con la musica ad alto volume, ininterrottamente. Alcuni amici, scrittori sicuramenti più bravi di me, inorridiscono, ma è il mio innesco. Poi guardo moltissime immagini. Mi ricordo che per parlare del Petrolchimico di Porto Marghera avevo selezionato un centinaio d’immagino che facevo passare random sullo schermo ascoltando musica anni ’90: Una terra malata genera mostri. Preferisco non parlare di quello che ho dovuto fare per ricreare l’ambiente delle congreghe sataniche o l’esplorazione del Dark Web per un prossimo romanzo. Quindi, se non fosse un libro sarebbe una voce narrante sopra delle immagini che scorrono. Con una colonna sonora molto, molto rilevante.

Che rapporto hai con la censura?

A volte ho nostalgia di una censura chiara, prevedibile, come quella italiana della I Repubblica che colpiva Pasolini e Zavattini e costringeva a schierarsi, apertamente. Scherzo, ovviamente, ma in un viaggio in Iran di qualche anno fa, appena prima della vittoria dei conservatori che avrebbero portato alla rivolta in corso, mi resi conto – non ci voleva molto – che erano le donne l’anello debole della catena di controllo. Per i maschi tutto era peccato veniale, per le femmine mortale. Però molti comportamenti non censurati, i capelli che sfuggivano dal velo, la cura nel vestire, erano tollerati e quindi quasi sopportabili per le giovani generazioni. Poi, un giro di vite ha cambiato tutto ed è iniziata una nobile lotta dimenticata. La censura definisce il tuo agire, credo.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Fare il giornalista nelle Tv private e poi scrivere storyboard di documentari o video istituzionali, sceneggiature, mi ha fatto guadagnare bene. L’ho sempre ritenuta una fortuna: ero giovane e facevo una cosa che mi piaceva maledettamente. Oggi, scrivere è altro. Parlavo con Emilio Rentocchini, il poeta – parlavo è inesatto, pendevo dalle sue labbra – e lo sentivo affermare che la poesia è un affare da persone mature, che sei costretto a passare per il crogiolo degli anni perché la fionda della tua espressività ti scagli a bordeggiare il baratro. Da ragazzo mi sarei infuriato per questa generalizzazione, ma ora ne tengo di conto benché ami i giovani che provano a scrivere in questa società geriatrica. Contesto lo status quo? Finché non ne fai parte è semplice e quindi credo che la parte di bastian contrario mi calzerà a pennello a lungo.

Io odio i generi, credo con Pinketts che “i generi letterari siamo i bracci della morte della letteratura”. L’ha detto lui in maniera migliore di quanto io possa mai fare, perché girarci attorno?

Allora rimangono le mie storie dove si mescolano le periferie schiacciate dalle bellezze monumentali, le città da cartolina si arrotolano e ingialliscono, e i mari da agenzia turistica rivelano una fatica arcaica. La c aspirata del toscano si unisce al rotacismo cinese; il dramma del Petrolchimico di Marghera diventa paradigma di tutta la brutalità dell’aut-aut padronale: salute versus occupazione. La guerra di Jugoslavia la declinazione delle nuove guerre così identiche alle precedenti e in tutto questo rimane saldo solo il mio patto con il lettore: tu ascoltami e io t’intratterrò. È essere contro lo status quo?

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