(Voce di Edgar Allan Poe, oggi)
Tutti leggono i miei racconti. Il Corvo, La caduta della Casa Usher, Il cuore rivelatore. Ma chi conosce la mia vita? Quella vera? Eppure, è stata la mia opera più estrema. Una storia che fa impallidire qualunque racconto gotico: un miscuglio spaventevole di grottesco, di patetico, di stravagante, di funebre e di orribile.
Il genio – dicono – si paga. E io ho pagato tutto. Ho pagato anche l’anticipo, in anticipo.
Persino prima di nascere, ero già uno sfortunato.
Mio padre, David Poe, cacciato di casa dai suoi, si ostinava a voler essere attore, senza averne il talento. Si sposò con Elizabeth Arnold Hopkins, attrice anche lei, vedova, fragile, malata. Forse sperava di diventare artista per contagio. Invece no. Tre anni a Boston, a far tutte le parti possibili, tutte le repliche, tutte le umiliazioni.
Nel 1808 un giornale locale chiede ai lettori carità per lei. Carità.
Poi, come se non bastasse, si ammalò di polmonite. Faceva una bambina e tossiva sangue. I buoni cittadini mettono insieme un po’ di soldi. Si improvvisano due recite di beneficenza. Ma la morte, si sa, non si compra con la compassione.
Io nacqui nel 1809, a Boston. Terzo figlio. Da lì, la discesa.
A Richmond mi affidarono alla famiglia Allan. Lui, John Allan, commerciante scozzese, ricco e freddo. Lei, Frances, mi voleva bene. Ma morì troppo presto. Allan, ogni volta che provavo a cercare affetto, mi tirava addosso silenzi, poi insulti, poi porte chiuse.
Quando avevo 15 anni conobbi Elmira Royster. Aveva la mia età. Per me era tutto: perfezione, ispirazione, predestinazione. Ma mentre la vedevo come la mia Beatrice, i suoi la davano in sposa a un anziano ricco. Non seppi nulla. Spezzato.
Poi l’università, Charlottesville, 1826. Persi in un anno più di diecimila dollari in libri e gioco. Cominciai a bere. Non per gusto, mai. Non ero un amante del vino. Ero solo… condannato. Un automa: prendevo il bicchiere e via. Non lo assaporavo nemmeno. Non ero un bevitore per vizio. Ero un alcolista per necessità. Una macchina guasta che cerca la ruggine.
Alla fine, Allan mi riprese in casa, ma senza mai trattarmi come un figlio. Forse falsificai la sua firma, non lo so più. Ma so che nel 1827, a diciott’anni, scappai da Richmond. Arrivai a Boston e mi arruolai con il nome finto di Edgar A. Perry, come artigliere.
La vita di soldato era piatta, durissima. Nel 1829 uscii un altro libriccino: Al Aaraaf, Tamerlane and Minor Poems. Passò quasi inosservato.
Poi, finalmente, il 1° luglio 1830, entrai alla scuola militare di West Point. Ma non ci credevo più. Studiavo poco, mi stancai in fretta. Volevo solo essere espulso.
Nel gennaio 1831 mi diedi da fare per farmi cacciare: ventuno assenze in venti giorni. All’appello, agli esercizi, allo studio, alle guardie, perfino alla chiesa. Mi rifiutai due volte di obbedire.
Il 5 marzo 1831, la corte marziale mi condannò: espulso.
Ero di nuovo per strada. Solo. Con in tasca diciassette soldi.
Tornai a Richmond. Ma Allan si era risposato. Niente da fare. Mi spostai a Baltimora. Mi accasai con mia zia Maria Clemm, vedova del signor Clemm, che viveva di cucito con la figlia, Virginia.
Chiesi un posto da ripetitore in una scuola. Me lo negarono.
Poi, un amico di famiglia, Kennedy, mi fece avere un lavoro alla Gazette di Baltimora. Scrivevo. Ma nel frattempo mi innamoravo. Sempre. E bevevo. Sempre.
Mi accesi per una cugina, Miss Herring, ma mi cacciarono per ubriachezza. Poi Maria, un’altra. Ma la mia presenza inquietava la sua famiglia. Una volta alzai le mani su uno dei suoi parenti. Finì lì.
E intanto scrivevo. I primi racconti fantastici: Berenice, Morella, Silenzio.
Nel 1833 vinsi un concorso letterario. Una novella. 100 dollari. Ma serviva ben altro.
Tentai un’ultima volta con Allan. Era morente. Volevo solo vederlo. Sua moglie cercò di impedirmelo. Le diedi una spinta. Entrai nella camera del vecchio. Idropico, mezzo morto, mi minacciò col bastone. Fuggii.
Morì poco dopo. Lasciò due milioni alla moglie. A me, neppure il nome nel testamento.
Ma almeno qualcuno iniziava ad accorgersi di me. Kennedy mi fece pubblicare racconti, quindici dollari l’uno. Mi invitò a cena. Io gli risposi: “Non posso. Il vostro invito mi ferisce. Non ho un vestito decente.”
Mi aprì la casa. Mi raccomandò a Thomas White, direttore del Southern Literary Messenger. Mi pubblicò, poi mi assunse come redattore capo.
Facevo tutto. Lavoravo come un dannato. La rivista da 700 copie passò a 5.000. Il mio stipendio da 10 a 15 dollari la settimana.
Scrivevo racconti, poesie, critiche, saggi eruditi e burleschi. Ma il bere tornò. Gli eccessi mi lasciavano vuoto, depresso.
A Baltimora, la zia Clemm era la mia àncora. Oculata, affezionata, pratica. E Virginia… era l’aria che respiravo.
E fu proprio per legare per sempre le nostre vite che chiesi di sposarla. Aveva tredici anni. La madre disse di sì. Altri parenti no.
Andai a Baltimora. Le convinsi. Tornammo a Richmond. Mise su una pensione. Andava tutto bene, almeno per un po’.
Il 16 maggio 1836 sposai Virginia. Non guarì i miei fantasmi. Ripresi a bere. Persi anche questo lavoro.
Nel gennaio 1837 fui licenziato. Presi le mie due donne e andai a New York. Sognavo fortuna.
Trovai solo delusione.
Dopo il licenziamento da White, mi portai dietro Virginia e la zia Clemm a New York, sperando ancora in una svolta. Ma là, mi offrirono appena spazio su una rivista di teologia. Scrissi Le avventure di Arthur Gordon Pym, le pubblicai nel 1838, ma non ebbero alcun successo.
Scappammo a Filadelfia. Per campare, impasticciai un trattato di conchigliologia copiato qua e là. Riuscii perfino a venderlo.
Poi vennero gli insulti, le accuse di plagio.
Nel frattempo, William Burton, direttore del Gentleman’s Magazine, mi offrì il posto di redattore capo. Dieci dollari la settimana. Accettai.
Scrissi lì alcuni dei miei racconti migliori, tra cui La caduta della Casa Usher. Ma non durò. Mi scontrai con Burton. Ci accusammo a vicenda d’indelicatezza.
Nel giugno del 1840 ero di nuovo senza un cent.
Il successore di Burton, George Graham, rilevò la rivista, la rilanciò come Graham’s Magazine e mi volle con sé. Nel 1841 tornai redattore capo.
Ci misi il cuore. Pubblicai I delitti della Rue Morgue. La rivista esplose: da 8.000 copie a 40.000.
Scrivevo senza sosta: novelle, poesie, saggi, stroncature. Ma ogni tanto… sparivo. Letteralmente.
Nel marzo del 1842, tornai in redazione e trovai un altro al mio posto: Rufus Griswold. Uno che mi odiava. Me ne andai furioso. Graham tentò di trattenermi, ma ormai era tardi.
Io volevo una rivista tutta mia. Libera. Mia.
Già prima di lavorare con Graham avevo progettato il Penn Magazine, ma non trovai i capitali.
Lasciato Graham’s, ci riprovai. E solo nel 1848 trovai un certo Clark disposto a trasformare il suo Saturday Museum in una rivista nuova: “The Stylus”. Avrei dovuto dirigerla io.
Andai a Washington per cercare abbonati, per ottenere un appoggio ufficiale. Mi avevano promesso anche un impiego alle dogane, grazie a un certo Thomas.
Ma anche lì… il demonio dell’alcol mi seguiva. Il vino mi tradì. Fallii tutto.
Un amico scrisse a Clark: “Vieni a riprenderti Poe. È in uno stato pietoso.”
Fallito anche questo, tornai a casa. Dalla zia Clemm. Sempre pronta a perdonarmi, a curarmi.
Ripresi la solita vita: vendere racconti a pochi dollari, mandarli a riviste che spesso nemmeno li pubblicavano.
Solo con Lo scarabeo d’oro, vinsi un concorso. Ricevetti cento dollari.
Nel 1840 uscì un’edizione in due volumi dei miei racconti. Non si vendette abbastanza nemmeno da coprire le spese dell’editore.
Scrissi a Dickens, gli chiesi di trovarmi un editore in Inghilterra. Mi rispose che nessuno voleva rischiare. Nessuno.
Nel 1843 tenni delle conferenze a Baltimora e Filadelfia. Parlai della poesia americana. Ma stroncare troppi scrittori non paga. Guadagnai poco.
Lowell, uno scrittore giovane e promettente, fondò una nuova rivista: The Pioneer. Mi offrì dieci dollari a pezzo. Pubblicai Il cuore rivelatore nel primo numero.
Ma dopo tre uscite, anche The Pioneer fallì.
Cercavo ancora di far nascere “The Stylus”. Lo immaginavo come una rivista segreta, fatta da dodici uomini d’ingegno, una lega di spiriti aristocratici.
Sognavo centomila copie. Centomila dollari di utile.
Ma la realtà era diversa.
Per risparmiare mi ritirai con Virginia e la zia in una casupola nei dintorni di Filadelfia. Legno e solitudine.
Virginia, a vent’anni, cominciò a sputare sangue. Silenziosa, malinconica, chiusa in una cameretta con il soffitto basso…
E io. Io ero un uomo perseguitato. Non potevo proteggerla.
Le malelingue dicevano che maltrattavo mia moglie. Che bevevo, sì. Ma non per scelta. E la adoravo. Mia suocera lo confermò: mai smisi di amarla.
Ma quando le crisi mi prendevano – il nero della mente, la vertigine – fuggivo. Scappavo nel nulla. A volte di notte, senza una meta. Vagavo.
Piangevo. Oppure mi rifugiavo in una taverna. A bere.
Poi, dopo giorni di torpore, ritornavo. Scrivevo come un forsennato. Leggevo tutta la notte. Ma il vino non bastava più. Arrivò l’oppio.
Gli accessi, la pazzia, il collasso.
Nel 1848 scrissi a Griswold – sì, a lui, il mio nemico:
“Non potreste mandarmi cinque dollari? Sono malato. Virginia è in fin di vita…”
Tornammo a New York. Prendemmo due stanze mezze cadenti sulle rive dell’Hudson, a Bloomingdale.
La zia cercava lavoro per me. Andava nelle redazioni a supplicare.
Il direttore dell’Evening Mirror, Willis, mi diede un posto subalterno. Correggevo bozze, traducevo, scrivevo articoletti anonimi.
Il 20 gennaio 1845, pubblicarono Il Corvo.
Ebbi dieci dollari. E la gloria.
Tutti parlavano di me. Finalmente.
Lowell scrisse un lungo saggio su di me. Un editore mi pubblicò i racconti e i versi.
Feci una grande conferenza sulla poesia americana il 28 febbraio.
Diventai “il tipo del momento”.
E tra le bas-bleus, la più celebre era la signora Frances Osgood. Moglie di un pittore. Poetessa. Bella. Mi innamorai. Di lei. E delle sue poesie.
Cominciò un’amicizia platonica. Ma ardente. Mi trasferii per starle vicino. Virginia non fu gelosa. Sapeva.
Ma l’ardore diventava troppo. La Osgood si allontanò. Io la seguii ovunque: Albany, Boston, Providence.
Alla fine, lei mi respinse.
Le altre letterate si scandalizzarono. Dovetti scrivere lettere di scuse. Io, l’autore del Corvo, umiliato da scribacchine.
Allora riversai tutta l’ira sul Broadway Journal. Attaccai Longfellow. Lo accusai di plagio.
Il direttore Briggs mi voleva fuori. Ma stavolta fui io a farlo cacciare. Presi il controllo. Ma i soldi mancavano.
Scrissi a tutti per ottenere 50 dollari. Niente.
Nel 1845 il Broadway Journal chiuse.
Tentai nuove conferenze, letture. Ma l’alcol mi inchiodava. Sbalbettavo. Scordavo i versi.
Eppure scrivevo. Meraviglie.
Racconti. Saggi. Stroncature. Una di queste mi portò in tribunale. Ma ne uscii con un’indennità: 225 dollari.
Per sfuggire alla città, presi una casetta a Fordham, a quindici miglia da New York.
Silenzio. Alberi.
Ma Virginia peggiorava.
Io crollavo.
La zia doveva mendicare.
Alcune signore misero insieme sessanta dollari.
Virginia non aveva altro che il mio pastrano per coprirsi. E un gatto per scaldarsi.
La madre le teneva i piedi. Io le mani.
Le alitavamo addosso, come due folli.
Una donna, la signora Shew, ci aiutò in quei giorni. Ma non bastò.
Il 30 gennaio 1847, Virginia morì.
La mia anima si ruppe in mille pezzi.
Mi ammalai. Febbri. Deliri. In casa non c’era più nulla.
Un’altra sottoscrizione. Cento dollari.
Ma io… io ero già altrove.
Non so vivere senza sentire, vicino al mio, il battito caldo di un cuore di donna.
Dopo la morte di Virginia, il silenzio era troppo. E troppo era il gelo. Così mi sono innamorato – all’improvviso, sì – della signora Shew, l’unica che non mi avesse lasciato durante l’ultimo inverno di disgrazie. Mi aveva curato, sfamato, sorretto. E io, cieco d’affetto, le chiesi di sposarmi.
Scrissi lettere scomposte, frasi piene di fame, poesia malata. Scrissi anche versi per lei, impregnati di amore e tristezza, come se l’inchiostro fosse sangue.
All’inizio mi sopportò. Anzi, pareva commossa. Ma poi… silenzio. Smise di rispondere, chiuse ogni porta al mio cuore affamato. L’ultimo mio appello restò senza voce.
Anche questo idillio finì. Miseramente.
Eppure… non smettevo di cercare l’amore. Mai.
Dovevo avere una donna accanto, sempre.
Nel frattempo, pubblicavo pochissimo. Ma nella mia testa — sempre in allerta, sempre in fermento — andava costruendosi qualcosa di enorme. Una teoria dell’universo, un sistema totale, un delirio perfettamente logico: Eureka. Lo presentai in una conferenza, e non ammettevo repliche. Uno mi mise in discussione e risposi come solo chi è già oltre la soglia può rispondere:
«Tutta la mia natura si rivolta all’idea che nell’universo ci sia un essere superiore a me.»
Sì, Eureka era il mio vangelo, la mia rivelazione.
Lo presentai all’editore Putnam con una sicurezza folle:
«Per cominciare, una tiratura di cinquantamila copie potrà forse bastare.»
Putnam accettò. Ma ne stampò solo cinquecento.
Nemmeno quelle si vendettero.
Ma io non mi stancavo di cercare qualcuno. Qualcosa.
Mi invaghii di Sarah Helen Whitman, poetessa, vedova, sei anni più grande di me. Mi sembrava l’unica in grado di capire. In pubblico la paragonai a Frances Osgood. Andai a Providence.
Lei esitava: la mia reputazione era pessima, i parenti si opposero.
Ma io insistevo.
Tornai, implorai. Bevvi. Feci scenate.
Alla fine disse sì. Fissammo perfino la data delle nozze.
Ma il giorno stesso, la mia vecchia ombra mi raggiunse. Bevetti di nuovo. Lei mi aprì la porta, vide in che stato ero, mi restituì le lettere, mi disse che mi amava ancora, ma che era finita.
Presi il treno per New York come un uomo smontato, sgonfio, deragliato.
E mentre rincorrevo la vedova Whitman, mi ero anche incapricciato di un’altra, Annie, che viveva vicino a Lowell. Le scrivevo lettere piene di fuoco, come se tutto non stesse andando in pezzi.
Ripresi a scrivere. Hop Frog. Annabel Lee. Le parole mi tornavano, mi salvavano a sprazzi. Ripresi anche i sogni dello Stylus, il mio vecchio progetto di rivista. Stavolta speravo in modo più realistico: 25.000 copie, 70 o 80.000 dollari l’anno.
Un certo Patterson sembrava crederci. Mi diede qualche anticipo.
Con quei soldi partii verso Sud, per cercare altri fondi.
A Griswold — sì, proprio lui, il mio nemico — lasciai il compito di pubblicare le mie opere in caso di morte. Non chiedermi perché. Forse per mancanza di alternative. Forse per pura ironia.
Arrivato a Filadelfia, mi persi di nuovo. Bevvi. Temevo di essere seguito. Pensavo al suicidio.
Andai da un giornalista e gli chiesi un rasoio. Gli dissi che volevo solo tagliarmi i baffi. Mi tagliò i baffi lui, con delle forbici. Mi lasciò vivo. Così, per poco.
Riuscii ad arrivare a Richmond. Presi una stanza in un vecchio albergo. Parlavo della mia cosmogonia con chiunque volesse ascoltare. Feci una conferenza sul “Principio poetico”. Mi fruttò 1.500 dollari.
A Richmond ritrovai mia sorella Rosalie, ritardata, che però capì chi ero. Mi guardò come si guarda una statua.
Conobbi anche Susanna Talley. L’ultima fiammata. Per lei giurai che non avrei più bevuto. Mi iscrissi persino a una società di temperanza.
Ma sapevo già che non avrebbe retto.
Poi ritrovai anche Elmira Royster, la mia prima, la mia antica promessa. Ora era vedova. Ora poteva essere. Le chiesi di sposarmi. E lei, stavolta, accettò.
Fissammo le nozze per l’11 ottobre.
Dovevo tornare a New York a prendere la zia Clemm. Salutai Susanna. Salutai Elmira. Il 27 settembre mi imbarcai.
E da lì in poi tutto si fa nebbia. Gli ultimi giorni. I più misteriosi. I più maledetti.
Mi ritrovarono a Baltimora, in una taverna, al buio. Era la vigilia delle elezioni. Il whiskey scorreva gratis: pagavano i candidati. Quando i miei amici uscirono dalla taverna, vennero circondati.
Io fui rinchiuso in una stanza su Calvert Street. Febbre. Delirio. Mi diedero bottiglie con dentro anche oppio. Rimasi lì tutta la notte, in quello stato. La mattina, quelli che mi avevano preso — semplici agenti elettorali — mi portarono in giro per farmi votare due o tre volte.
Non reggevo in piedi. Alla fine, mi buttarono su una carrozza e mi lasciarono all’ospedale Washington.
Ero irriconoscibile. Scarpe rotte. Vestiti a brandelli. Il volto gonfio. Parlavo a vanvera. Restai incosciente fino alle tre del mattino. Poi mi svegliai tremando. Urlavo nomi, mostri, ombre. Continuavo a chiamare un certo Reynolds.
Poi mi calmai.
E la domenica mattina, alle cinque, il mio corpo cedette. Era il 7 ottobre 1849. Avevo quarant’anni.
Mi seppellirono a Baltimora. Davanti alla mia tomba, per anni, c’era una bottega di liquori. Nemmeno nella morte ho avuto pace.
E Griswold — proprio lui — si prese l’incarico che gli avevo lasciato. Pubblicò due volumi, poi cambiò tutto, tagliò, ignorò decine di testi.
Infine, scrisse su di me una biografia piena di bugie, veleni, calunnie.
Soltanto nel 1874 Ingram tentò di rimettere insieme qualcosa di vero.
Ma fu nel 1902, con l’edizione Harrison, che le mie opere — lettere comprese — vennero finalmente raccolte. Diciassette volumi.
Ci è voluto parecchio perché qualcuno si degnasse di capire davvero chi ero.
O almeno, provarci.
Francesca Mezzadri