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La vita agra di Luciano Bianciardi

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9788807881640_quartaHo pensato che ad aprire “Punto di svolta” dovesse essere un libro con le caratteristiche del bello, potente, vivo, a suo modo definitivo.

La scelta è caduta su La vita agra di Luciano Bianciardi, un capolavoro inspiegabilmente quasi ignorato dalle ultime generazioni di lettori, pur avendo goduto di un immediato, felice riscontro alla sua uscita nel 1962, quando vennero riconosciute allo scrittore toscano provate capacità narrativa e profondità di analisi da buona parte dei colleghi: Italo Calvino su tutti, che caldeggiò in prima persona la pubblicazione di questo scritto e Indro Montanelli, che definì il romanzo come “uno dei libri più stupefacenti e più pittoreschi” di quegli anni.

Un successo di critica e di pubblico che portò anche alla trasposizione sul grande schermo a firma del regista Carlo Lizzani.

Poi, come spesso solo in Italia, inspiegabile, il disamore. Meglio, un parziale oblio.

Eppure Bianciardi ci aveva consegnato quello che presenta tutte le qualità del “romanzo perfetto”.

A partire dalla sua tematica: gli bastano meno di duecento pagine per tracciare un’analisi acutissima di un momento storico fondamentale per l’Italia, il passaggio da un mondo contadino agli agi e alle nuove abitudini del boom economico. L’autore sceglie di far parlare una voce narrante ampiamente autobiografica: un uomo fragile, inadatto ai ritmi metropolitani, che trova lavoro in una Milano operosa, Capitale morale e fulcro del rinnovamento del Paese.

Vita-agra02Partendo dal tramite di questo occhio privilegiato all’interno di un ambiente lavorativo specifico, quello dell’editoria, l’autore arriverà a tracciare con forza descrizioni dettagliate al midollo di quelle inattese inumanità e alienazione portate a corredo dal benessere “per tutti”. E’ presa di coscienza acuta, dolorosa, di un malessere che si sarebbe compreso in tutta la sua devastante portata solo qualche anno più tardi, certo non nel 1962 quando il libro uscì con carattere di lucida visionarietà e lungimiranza.

Bianciardi definì La vita agra come “la storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare”.

Narra il quotidiano di un giovane letterato che abbandona la Toscana per trasferirsi al Nord Italia, dove troverà lavoro prima come giornalista, poi come traduttore.

Una sorta di gavetta dal basso a riassumere una povera carriera sullo sfondo di un mondo editoriale colto in uno straordinario momento storico di fermento, vivo, con squarci sul possibile, che ricalca pedissequamente l’esperienza di vita dell’autore stesso, appunto: chiamato da Giangiacomo Feltrinelli, il “miliardario comunista”, a fondarne la casa editrice, Bianciardi fece difatti parte di quel folto gruppo di intellettuali che negli anni Cinquanta confluirono da un’Italia della provincia alla “città dell’industria culturale”. (Carlo Cassola, uno dei primi amici fraterni, lo descrive come in perenne fuoriluogo, spaesato, disarmato: “un uomo molto provinciale, che aveva viaggiato pochissimo, chiuso, goffo, con la giacca a due petti, il maglione giallo con i cervi disegnati sopra e le scarpe enormi. Milano era davvero la luna per lui”. Una luna lontanissima dalla sua Maremma, il “posto più pulito del mondo”, e dove però si accomoda in breve tempo nel più squallidamente prevedibile dei doppi registri: un figlio e una moglie onesta, taciturna, “anima semplice” abbandonata al paese, l’immancabile vita piena con un’amante, la principale, con cui condivide letto, letture, affinità elettive a Milano; la qual cosa non gli impedirà di avere comunque nel frattempo altri due figli dalla legittima consorte).

Anche il protagonista del suo romanzo giunge nella città moderna, di respiro internazionale, dove “la gente è allineata e cammina sulla rotaia”. Abiterà camere ammobiliate alla portata della sua magra tasca in un quartiere allora di carattere popolare, via Solferino in Brera, avrà moglie e amante e un impiego nell’editoria.

bianciardi-luciano-bianciardi-11120917052513_bigMa la voce narrante del romanzo motiva la sua presenza a Milano con un altro e alto scopo, segreto: una vendetta. Sociale. Vuole rendere giustizia a 43 minatori che persero la vita in un incidente sul lavoro (accaduto veramente, ma qualche anno prima, nel ’54 a Ribolla in provincia di Grosseto e che Bianciardi seguì da cronista, ndr.) causato dall’incuria e dalla leggerezza nell’applicazione delle norme di sicurezza dei dirigenti. Lavorano al sicuro i responsabili del disastro, ben lontani dal luogo della tragedia, comodi e ignari del suo piano nella sede centrale della ditta: un palazzone milanese, appunto, il “torracchione”, che il protagonista ha in mente di far saltare in aria con il grisù, così da far fare ai “vertici” la stessa tremenda fine della “base”, i minatori.

Il romanzo – scritto in un’unica versione da subito definitiva – prende le mosse da quest’idea, l’attuazione di una eclatante azione di rappresaglia, ma dopo giusto poche decine di pagine lo sguardo si sposta. Il protagonista riflette, Milano e chi la abita gli lanciano un segnale sottile ma estremo, definitivo: se una presa di posizione è bene sia fatta, se la denuncia – legittima – della disumanità delle condizioni di vita dei lavoratori va inoltrata, ciò deve avvenire con altri mezzi.

Le bombe anarchiche hanno fatto il loro tempo. Qualcosa è cambiato: in largo anticipo sui tempi, Bianciardi coglie il nodo, il punto di svolta della società. E alla figura del suo alter ego, giornalista di belle ma cassate speranze, fa delineare altri obiettivi di vita possibili.

Ambirebbe a scrivere, ad esempio.

Non cronaca, come costretto dalla quotidianità, dell’altro:

“Datemi il tempo, datemi i mezzi, ed io […] Costruirò la mia storia a vari livelli di tempo, di tempo voglio dire sia cronologico che sintattico.

Farò squillare come ottoni gli aoristi, zampognare come fagotti gli imperfetti, pagine e pagine di avoivoevo da far scendere il latte alle ginocchia, svariare i presenti dal gemito del flauto al trillo del violino alla pasta densa del violoncello, tuonare come grancasse e timpani i futuri carichi di speranza. […]

Vi darò la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore, e il lettore nel suo leggere, in quanto lettore, e tutti e due coinvolti insieme in quanto uomini vivi e contribuenti e cittadini e congedati dell’esercito, insomma interi. […]

Proverò l’impasto linguistico, contaminando da par mio la alata di Ollesalvetti, diobò, e U’dialettu d’Urcurdunnu evocando in un sol periodo di Burchiello e Rabelais […] Ma anche vi darò il romanzo tradizionale, con tre morti per forza, due gemelli identici e monocoriali e un’agnizione. Il romanzo neocapitalista, neoromantico o neocattolico, a scelta. Ci metterò dentro la monaca di Monza, la novizia del convento di ***, il curato di campagna e il prete bello.

Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”.

Ma soprattutto, quest’uomo osserva.

Bianciardi lo fa guardare dal di dentro una società in precipitoso sviluppo apparentemente, in realtà ancora sospesa tra un passato contadino, fatto di forza di legami, e ruoli chiari, stabiliti immutabili nei millenni, e una modernità nauseabonda, protesa in avanti, promettente luminose speranze che porteranno – ma lo sappiamo solo noi, lettori arrivati decenni dopo – a inaridimento, alla morte spirituale.

Coglie segni, Bianciardi, marcando un punto di svolta.

C’è denuncia ne La Vita Agra, ci si attende un vocabolario da invettiva virulenta, che certo non gli era estraneo: ecco invece che ci sorprende scegliendo sua prosa personalissima, sorretta da un linguaggio straordinario, tra la tenerezza intimista, lo sbigottimento e la rabbia che posa sul fondo, in cui si percepisce forte un substrato colto, frammisto a un’incontenibile ironia dissacrante e anticlericale, molto (volendo dare spazio al cliché) toscana.

Osserva, il protagonista, e noi con lui, questa Milano-Italia protesa in avanti, di luminose speranze e modernità, dove stanno per essere spazzate via molte delle dimensioni del quotidiano: ci introduce alla politica del quotidiano della vita “di sezione”, a quella di quartiere, ancora a dimensione umana, delle latterie con cucina, dei bar-rifugio con improbabili concessioni all’esotico (il “delle Antille” che diventa nelle pagine del libro un simile “Giamaica” e che come nella vita dell’autore sarà anche per il suo personaggio unico abbraccio di umanità e calore milanese al di fuori dalla propria abitazione).

JamaicaCosì come scruta dal di dentro con astio malcelato l’ambiente del lavoro, un universo dove pare reggano le sorti del potere non tanto i dirigenti, ma le segretarie – comprese nel ruolo, tante, troppe, moltiplicate “per partogenesi” – e le dattilografette “vera spina dorsale dell’import-export, del commercio, delle attività terziarie e quartarie. Secche di gambe, piatte di sedere, sfornite di petto, picchiettano dalla mattina alla sera coi tacchi a spillo, sugli impiantiti lucidati a cera, e poi su un pezzetto di marciapiede, fino alla fermata del tram”, una marcia che “provoca una scossa sgraziata che si scarica sulle gote e le fa sconciamente vibrare”, donne piccole ma potenti, “telefoniste che in pratica dirigevano aziende di media grossezza” facendo fare anticamera a chi non susciti le loro simpatie.

Un mondo a parte, separato da fili invisibili e invalicabili da quello degli operai che esausti già di primo mattino si recano in fabbrica attraversando a testa bassa strade inghiottite in una foschia lattiginosa: “La chiamano nebbia, se la coccolano, te la mostrano, se ne gloriano come di un prodotto locale. E prodotto locale è. Solo, non è nebbia. E’ semmai una fumigazione rabbiosa, una flautolenza di uomini, di motori, di camini, è sudore, polverone sollevato dal taccheggiare delle segretarie, delle puttane, dei rappresentanti, dei grafici, delle stenodattilo; è fiato di denti guasti, di stomaci ulcerati.

Sono gli ultimi anelli della catena a fare vita grama, “agra”. Gli operai, la manovalanza, i giornalisti sottopagati, i traduttori, infine: la mansione a cui approda il personaggio del libro, che si ritrova a moltiplicare cartelle su cartelle per una paga incerta e minima, sorretto da pasti necessariamente frugali, da grappa gialla di poco prezzo, buona questa per ammorbidirsi e favorire i pochi contatti umani fra compagni di sventura e “la gente estranea e ostile, con la faccia rinceppata e piena di rancore”, uomini e donne “rabbiosi sempre, il lunedì la loro ira è alacre e scattante, stanca e inviperita il sabato”. Gente di cui “ti accorgi subito che la tua conoscenza è un fatto puramente ottico. Non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro, i baccelloni, gli ultracorpi, gli ectoplasmi. Nei primi mesi del loro arrivo in città forse no, forse resistono e hanno ancora una consistenza fisica, ma basta un mezzo anno perché sui vuotino dentro, perdano linfa e sangue, diventino gusci”, che si animano solo parlando di denaro: “Dicevano tutti la grana. La grana e poi i dané. La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito.”

Per soddisfare i tanti “bisogni mai sentiti prima”, purtroppo, c’è da pagare: in perdita di umanità.

In conclusione, solo due sono le vie d’uscita possibili: soccombere alla nebbia dell’anima, alla luce cruda dei neon che illuminano male fabbriche e uffici, al “ringhio sordo” del “milione e mezzo di formiche grigie”, all’opacità.

O aggrapparsi all’Umano. Non con le bombe: “ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, in interiori nomine”, fa dire Luciano Bianciardi al suo personaggio.

Una resistenza è possibile, e sarà intima, nascosta, individuale. Ma sarà.

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