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Leónidas Lamborghini. Il candidato fuori posto

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In un bellissimo saggio dal titolo L’ultimo lettore, con la consueta arguzia Ricardo Piglia, oltre a delineare la figura del lettore nella storia della letteratura, racconta un episodio curioso.

Esiste, racconta l’argentino, un fotografo che aveva costruito un plastico, un modellino molto grande di Buenos Aires. Una versione della città, così come questo fotografo la ricordava. Ne risultava, ovviamente, una città parziale, diversa, una versione emotiva, della topografia.

Allo stesso modo, per ignoranza, per amore e desiderio, nella mia testa esiste una Buenos Aires letteraria che non esiste se non nel mio cuore, una città che fermenta, dove si mischia la storia, dove Borges incontra Gombrowicz, Sábato, la Venturini, Roberto Arlt e Macedonio, Piglia e Onetti. Sono tutti nella stessa linea temporale, tutti nelle stesse sale da biliardo. Non sono tutti amici, alcuni si odiano, ma sono lì.

In questa stanza fuori dal tempo ci sono poi loro, in disparte e uniti, gli “ammutinati”. Sono quelli più strani di tutti, che scrivono opere impubblicabili, senza un criterio, senza un tempo che le accolga. In questo tavolo, al quale nemmeno i camerieri si avvicinano, ci sono Gusmán, c’è Libertella, lo stesso Piglia, c’è Laiseca e c’è, soprattutto Osvaldo Lamborghini, quello che scrisse Il fiordo, Il bambino proletario, il creatore di Storpiani.

Roberto Bolaño disse che nella cantina della letteratura latinoamericana ci sono le casse, sopra gli scaffali, con tutte le opere dei grandi maestri e poi c’è una scatolina, la scatolina di Osvaldo Lamborghini e dentro quella scatolina ci sta l’Inferno.

Perché Lamborghini scriveva racconti terribili, pieni di violenza, di cattiveria. Amava portare le situazioni ai limiti estremi del disgusto. In confronto ai suoi racconti, le 120 giornate di Sodoma sono un episodio di Tom e Jerry.

Vicino a questo tavolo con gli ammutinati ce ne sta uno piccolo, un banchetto, con César Aira, che sta legato a Osvaldo con una catenella d’oro e poi, c’è uno sgabello, quasi al buio, ma evidente, come un’ombra riflessa dentro uno specchio. Lo sgabello è dietro Osvaldo e sopra, seduto, composto, silenzioso, suo fratello Leónidas.

Leónidas Lamborghini è un poeta, un poeta che scrive poemi lunghi, complicati. Lui e Osvaldo non si capiscono, sono molto diversi.

Dentro Il candidato fuori posto, portato in Italia da Argolibri, grazie alla bellissima traduzione di Lorenzo Mari, c’è una sezione intera – il poema è diviso in quattro parti – in cui Leónidas affronta l’ingombro del fratello infernale. Sono le Dieci scene del paziente e in una si racconta di questo viaggio folle, in taxi, in una stanza d’albergo dove dimora il fratello. È una scena molto forte, concitata, piena di pathos. Leónidas affronta un fantasma ancora capace di urlare.

Ma non è l’unico mostro che questo poeta elegante decide di affrontare nel suo poema. Si parla di peronismo, di rivolta proletaria, della condizione degli operai.

Ci sono anche momenti molto teneri, quasi privati, in cui si parla della figlia.

Il candidato fuori posto è un poema in versi, diviso in quattro parti, lungo 297 pagine, ma questo non deve spaventare. È come un racconto e si legge velocemente. Si entra nel flusso dei versi e poi si va avanti. Bisognerebbe sempre leggere quello che solitamente non leggiamo, abituarci a guardare dentro gli spazi bianchi. Libertella diceva che esiste una letteratura che non significa niente per nessuno, ma che a lasciarla fare il lettore si fa, che lui lo creda o meno, più lettore.

Pierangelo Consoli

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Leónidas Lamborghini, Il candidato fuori posto, Argolibri 2025, Pp.314, Euro 16

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