Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

L’età dell’uva. Intervista a Mattia Tarantino

Home / L'intervista / L’età dell’uva. Intervista a Mattia Tarantino

L’Età dell’uva è il nuovo libro di poesie di Mattia Tarantino edito da Giulio Perrone nel 2021 con la prefazione di Giorgiomaria Cornelio che, poeta anch’egli, insegue le parole poetiche del coetaneo in un afflato poetico di conoscenza oltremondana eppure tutta corporea. La scrittura di Mattia Tarantino è la descrittura della pena, della transizione entro la coscienza dell’altro, dunque del morto. Morto e moto verso altro e Altro e come non più grembo materno, in questi brevi disvelamenti dell’oltre, si vive il mondo non all’esterno del grembo e nemmeno all’interno, ma nell’inferno puro, punti in quella condizione perenne dell’inframmezzarsi, restando. Facendosi resto insieme alla parola che cerca di riportare in vita l’evanescenza progressiva delle cose e degli esseri. Qual è la forma della transizione? Tarantino resta nella postura classica della poesia come tempo-luogo della conoscenza eppure, come ogni tradizione classica che dura e riecheggia, anche nell’antitradizione, nel movimento avanguardista che nega e vorrebbe eludere quel che negando eleva a exemplum quanto meno da evitare, in questa postura classica è anticipatorio di altri tempi a venire. La poesia della transizione desiderante, del vuoto attorno cui si dispiega il resto della vita, l’innominazione del resto che sta a metonimia del totale, scheggia di pietra della stessa materia di un corpo freddo, stellare. La poesia di Tarantino è medium tra un non più luogo e un non ancora tempo. Il poeta traduce l’invisibile, lo mostra, senza tradirne la natura di incorporea penetrante lucidità.

Gian Luca Garrapa

#

«Vorrei conoscere il mondo dei morti,

reclamarlo in una lingua senza storia

che non abbia una grammatica, ma possa

avverare tutto ciò che si pronuncia.»

Si apre così la raccolta. E la vendemmia delle parole è dedicata a Gabriele. La poesia, quanto meno questa, la tua, intrattiene rapporti di lontananza coi corpi vivi e di vicinanza con la materia oscura inscritta in ogni presagio e presentimento. Nel pigiare il suono abbiamo un senso che ne porta l’ombra significante: che legame ha per te la vita delle parole con il suono delle parole che rimane nel ricordo di chi non è più di questo mondo?

Arianna Mortari per la RUFA – Rome University of Fine Arts

Si tratta di attraversamenti, sovrapposizioni, intermittenze. Il suono, – ma cos’è il suono, in poesia? Abbiamo a che fare, piuttosto, col “sonoro” – macchina reticolare a intervalli, sollecita zone di configurazione fonetica la cui estensione – così come la profondità – è sempre in movimento, continuamente processa, perfino nell’aspetto del “ritrarsi immobile di ciò che non è stato tracciato”. Si rivolge, è sempre rivolta, e in questo scarto tra il “ri” e il resto qualcosa come una voce spazia e capita slabbri, pigi, oppure tagli e ordini. La parola dei morti interferisce con la nostra – interferisce… – e può farlo perché appartiene a questo mondo, a questa precisa – spessa ed evanescente – diagonale del mondo. Ci consegna in eredità un altro movimento, un sonoro possibile, il ritaglio di quanto non abbiamo ancora cancellato.

«I poeti non sanno morire:» ci portiamo addosso e dentro, per lo meno chi riesce a farci caso quando scrive, che è quasi sempre scritto, quasi mai scrivente, ci conduce una memoria inconscia di suoni e resti significanti che modellano la postura del poeta: perché i poeti non sanno morire, e muoiono quasi mai per sempre?

Perché nella scrittura – la sagoma del grido – la morte è reinvestita come rischio. Il corpo e il cadavere, Zoè e Bios, Fonè e Logos, si urtano proprio dove si separano, appena si separano. Di quest’urto di soglie, di questo aggeggio – tecnologia – che lo innesca e che lo ingaggia: di questo parliamo. La poesia come tecnica d’urti, la poesia come reinvestimento – nuova investitura – della morte: la morte, esposta come oggetto, rientra nel discorso e, attraverso il discorso, nel commercio di ogni giorno. Quotidiana, banale, qualche volta un po’ macabra, perfino ridicola: troppo importante per sembrare seria – soprattutto se c’è una guerra, intanto, da pensare.

«Non leggermi la mano. Tra le linee

troveresti soltanto la tua sagoma.»

La tua è una scrittura classica, e come ogni classico riesce a precedersi nel darsi all’altro. Viene all’altro, al lettore, in questo caso, da un futuro indefinito. Ammesso che esista una linea retta dal passato al futuro, e non, invece un globe shakespeariano, un teatro, un theatron, un vedere oltre sé stessi: cosa lega la poesia all’ascolto dell’altro, nel senso oggettivo e genitivo?

Le orecchie – l’Orecchio – e le preposizioni. L’altro è sempre introdotto – introdurre, interferire… – e l’Orecchio – ficarella scabrosa, non facciamo che preferirgli l’Occhio – svela e apre, non contiene. Il legame di cui parli mi sembra si dia proprio qui, in questo spazio tra qualcosa che apre – e che può ricevere soltanto al prezzo di non trattenere, di non contenere, di farsi incontinente – e qualcosa che esiste soltanto introdotta. Pare si tratti di una sorta di resistenza.

«Avrei voluto mi seguissi tra le ortiche,

tra piazze, ferrovie, tra le finestre

aperte sulle urla delle sagre.»

Si apre così l’Intermezzo, e in esergo i versi del poeta Gabriele Galloni, e allora la poesia che va oltre, si ricurva anche sul questo del mondo, sul corpo del ricordo che è carnevale, giovinezza disillusa troppo presto e svanita. Che resta, però a conciliare ogni sentimento di morte con la serenità di un gioco che si ripete. Quanto desiderio guida la voce del poeta a farsi scrittura di una nostalgia, di un’amicizia che non è più di questo mondo, e come riesci a non stare nella retorica egocentrica?

Quell’amicizia non è mai stata di questo mondo. In generale, non mi interessano le amicizie che hanno a che fare con un mondo soltanto.

«Ricordami che casa è dove sai

camminare a luce spenta e non cadere.»

È tratto dall’ultima sezione Variazioni: invisibile è quel che è stato nell’infanzia e che non torna, invisibile è quel che ritorna dall’aldilà. Eppure, come rabdomante, il poeta può sottrarsi alla facoltà della vista che è pure quella che fa leggere, e con sesti sensi captare nello spazio il sottotesto che non ha parola, che contorna il vuoto. Invisibile è il legame con la parola dei poeti che non ci sono. E la casa del linguaggio si abita, in silenzio e senza luce: si cammina sul filo della scrittura, verso dove, e quali invisibili voci ti hanno guidato in questa Età dell’uva?

Si cammina verso l’Ircocervo: dobbiamo comporre un corpo nuovo, dare un altro nome agli organi – ai bulloni –, inventare uno spazio – un dominio – per la fantasia. Perché una fantasia nuova e feroce offra al senso la sua necrosi bianca, lo corrompa, lo getti una volta ancora – ancora, mai per sempre – tra gli ingranaggi e le stoffe del mondo. Mondo che, per fortuna, appartiene sempre meno agli uomini: c’è altro a cui pensare. Gli uomini sono una postura, un punto di vista. Da domani, magari, decideremo di avere diecimila occhi. Chissà quale voce ci attorciglierà, allora, e cosa suoneremo. L’età dell’uva è un secolo ancora a venire.

Click to listen highlighted text!