Dramma in tre atti e una tisana
(liberamente ispirato a Le Serve di Jean Genet)
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Due sorelle.
Una padrona da uccidere.
Un autore che le guarda — o forse le possiede.
In una stanza rossa, Claire e Solange recitano, si avvelenano, si confondono.
Si fingono padrone, ma restano serve.
Cercano libertà, ma trovano solo ruoli.
E nel cuore di tutto, c’è lui: Jean Genet.
Il ladro, il santo, il prigioniero.
Il padre che non ha generato, ma scritto.
L’infuso del padre è un’opera teatrale ispirata a Le Serve (1947), il capolavoro di Genet che trasforma un fatto di cronaca reale — il brutale omicidio di una padrona da parte di due domestiche — in un rituale di desiderio, travestimento e vendetta.
Questo testo non è una riscrittura, ma una possessione: 
le sorelle si ribellano al loro destino di personaggi.
E per una volta, chiamano in scena l’autore.
Il risultato è una tragedia queer, teatrale, ambigua,
dove ogni frase è veleno,
ogni gesto è copia,
e ogni identità è un trucco che si scioglie sotto la luce.
_“Io sono Claire.
Io sono Solange.
Io sono la Signora con i piedi profumati.
Io sono anche il coltello.
E il veleno nella tisana.”_
— Jean Genet (più o meno)
Il cuore dell’opera è il conflitto, la gelosia, l’ambiguità dei sentimenti: odio, ammirazione, desiderio e repulsione che si mescolano come il veleno nella
Le due sorelle si pungono.
La vita di Genet entra in modo più sporco e disturbante.
Il tono è malato, ambiguo, teatrale.
Le scene (o atti brevi) saranno 3, come in Le serve.
TITOLO: “L’infuso del padre”
Dramma in 3 atti e una tisana
(ispirato a Jean Genet e alla sua opera “Les Bonnes”) 
PERSONAGGI:
CLAIRE – più fragile, più teatrale, tende a “recitare”.
SOLANGE – più brutale, più maschile, tende a “comandare”.
L’ASSENTE – Jean Genet, evocato, mai prese
ATTO I – “Ladro di madri”
(Una stanza rossa. Due sorelle in grembiule. Una teiera sul fuoco. Claire sta seduta. Solange cammina in cerchio, come una belva. Parlano in prima persona. La tensione è già altissima.)
SOLANGE:
Che cos’hai messo nella tisana?
CLAIRE:
Solo il tiglio. Il nostro solito.
(Una pausa.)
Perché? Hai paura che ti stia avvelenando?
SOLANGE:
No. Solo che con te non si sa mai. Una volta mi hai messo dentro del sapone.
Dicevi che era “per purificarmi”.
CLAIRE:
Non eri pura. Non lo sei mai stata.
SOLANGE:
(Sorride freddamente.)
Parla la figlia del ladro.
Del puttaniere, del prigioniero, dell’orfano volontario. 
Del nostro caro, indecente padre: Jean
CLAIRE:
(Recitando come se fosse su un palco.)
“Nacqui bastardo. Lo rivendico.”
Così scriveva.
SOLANGE:
Sì. Ma non è colpa sua se noi siamo venute fuori così.
È nostra.
CLAIRE:
Parla per te.
Io non sono nata.
Io sono stata scritta. Da lui. Ritagliata su misura tra le sue voglie.
Diceva che voleva “mostrare la femminilità… senza donna”.
Bene. Eccomi.
SOLANGE:
Tu non sei femmina, Claire. Sei solo un riflesso. Un trucco.
Un travestito senza travestimento.
CLAIRE:
(Morde il bordo della tazza.)
Meglio questo che essere come te.
Un servo che sogna di diventare carnefice.
Ma resta sempre servo.
SOLANGE:
(Le si avvicina.)
Bevi, Claire.
Bevi come lui beveva.
Nei cessi. Nelle celle. Nei corpi degli altri.
CLAIRE:
(La guarda, sibilando.)
Lui ci ha dato un destino. Tu che hai fatto, invece?
Hai fatto la fila per una parte da comparsa nella sua opera.
Io almeno l’ho sedotto
SOLANGE:
Sei pazza
CLAIRE:
Sì. Come lui.
Lo dicevano tutti. Anche Sartre.
Diceva che Genet era santo e pervertito.
Un martire del desiderio.
SOLANGE:
Martire un cazzo.
Se l’è goduta. Era l’unico che si divertiva mentre ci metteva in bocca il veleno.
(Le versa la tisana.)
Tieni. Brinda a papà.
ATTO II – “Teatro carcerario”
(Una luce fredda. Le sorelle si sono scambiate gli abiti. Claire ora veste in modo più maschile. Solange ha una parrucca da Madame. Il gioco è iniziato.) 
SOLANGE: (come Madame)
Ah, Claire. Claire. Quante cure per la tua padrona!
Mi hai lavato i piedi come una santa.
Mi hai stirato le mutande come una moglie.
CLAIRE: (fredda, dura)
Solange, smettila.
Non mi riesce più di fingere
SOLANGE:
Ah, ma non è un gioco. È il nostro mestiere.
Genet l’ha scritto: “Le serve si amano, ma l’amore tra le schiave è solo disprezzo condiviso.”
Lo dicevi tu, ricordi?
CLAIRE:
Lo dicevi tu. Io ti copiavo. Sempre.
SOLANGE:
Smettila.
CLAIRE:
No. Parliamo di lui.
Di come scriveva sulle pareti delle celle.
Di come si masturbava pensando a criminali impiccati.
Di come usava i nostri corpi per raccontare le sue voglie. 
Tu non eri che il suo specchio rotto.
Io ero la sua immagine
SOLANGE:
Vuoi essere lui?
CLAIRE:
Lo sono già.
E tu sei Madame.
O forse la figlia.
O forse il boia.
Non lo so più. Nessuna lo sa più.
SOLANGE:
(Lentamente.)
Allora bevi. Se sei lui, bevi.
Lui beveva veleno ogni giorno, Claire.
D’amore, di classe, di sperma e di sangue 
CLAIRE:
E poi lo risputava in frasi.
In opere. In noi.
SOLANGE:
Allora bevi, figlia.
Bevi la sua benedizione
ATTO III – “Un ultimo atto, forse”
(Tutto è spento. Solo le due tazze brillano. Claire è stesa, inerte. Solange è vestita come Claire all’inizio. È sola. Ma continua a parlare come se Claire fosse viva. O come se la stesse interpretando.)
SOLANGE:
Claire…
Solange…
Io… tu… chi siamo?
(Si alza, solenne.)
SOLANGE (come Claire):
“Solange, tu mi conserverai in te.”
Così hai detto, sorella.
Padre.
Madame.
SOLANGE (sussurrando):
Io sono tutte.
E nessuna.
(Beve dalla tazza di Claire.)
SOLANGE (al pubblico, come se rivelasse un segreto):
Volevamo uccidere la padrona.
Ma per farlo dovevamo diventare lei.
E così, l’abbiamo persa per sempre.
Ma almeno, adesso, siamo libere.
(Ride. Ma è un riso triste. Grottesco.)
SOLANGE (come Jean):
“La realtà si raggiunge solo con l’antirealtà.”
L’ha detto lui. Il nostro adorato bastardo.
Jean Genet.
Padre nostro, che stai nel peccato,
sia santificato il travestimento.
[Buio. Solo l’odore della tisana di tiglio resta. Come un fantasma.]
3 monologhi di Jean Genet, costruiti come se fosse lui a parlare da dentro la sua opera. Ogni monologo è immaginato per essere teatralmente recitato, come se fosse un’apparizione – non necessariamente realistica – durante la cerimonia delle due serve.
Genet entra come fantasma, padre, autore, padrone e prigioniero. Le parole affiorano come confessioni, bestemmie, deliri poetici.
MONOLOGO I
“Io non sono nato. Sono stato rubato.”
(Genet appare in penombra, forse seduto su una branda, forse in piedi sul tavolo delle serve. Guarda il pubblico come se lo sfidasse. Parla lentamente.
GENET:
Non mi hanno fatto nascere.
Mi hanno consegnato.
Come un pacco. Come una condanna.
Un giorno d’inverno, in un ospedale per indigenti.
Un nome finto, una madre scomparsa.
Ero già colpevole prima di imparare a parlare.
Rubavo pane, parole, sguardi.
Rubavo madri nelle donne degli altri.
E nella recita della povertà imparai la mia grande arte:
diventare chi mi odiava.
Ecco perché ho scritto le serve.
Non per giustificarle.
Per accusare tutti gli altri.
(Pausa). Si accende una sigaretta.
Io sono Claire.
Io sono Solange.
Io sono la Signora con i piedi profumati.
Io sono anche il coltello.
E il veleno nella tisana.
Sono stato ladro.
Puttano.
Delinquente.
E allora?
La mia immondizia brilla più delle vostre virtù.
(Si volta verso il buio, con un ghigno.)
E la mia infanzia…
non è stata triste.
È stata teatrale.
MONOLOGO II
“Nel fondo del buco ho visto Dio… e rideva.”
(Genet è in cella. Il muro è coperto di scritte. Una lampadina pende dal soffitto. Il pubblico lo guarda ma lui guarda oltre, come se vedesse un altro palcoscenico, lontano.)
GENET:
Avete mai dormito con l’odore dell’urina sotto il naso?
Con i topi che ti leccano i piedi?
Con le bestemmie che rimbombano come nenie?
Io sì.
E lì ho incontrato Dio.
Aveva la voce roca di un secondino e mi chiamava “puttana”.
(Sorride.)
Ero felice.
Sì, felice.
Perché lì non dovevo fingere nulla.
Ero solo io.
Corpo sporco.
Sogni immensi.
Lì ho imparato che non c’è arte senza colpa.
Che la santità è una forma estrema di devianza.
E che per vedere il cielo,
devi aprire il culo.
(Sputa per terra. Poi si ferma. Sussurra.)
Ho scritto in carcere.
Con il sangue, a volte.
Con la saliva, altre.
Quando mi tolsero la carta, incidevo sulle lenzuola.
I miei testi sono ferite cucite con inchiostro.
Le serve?
Non sono teatranti.
Sono apostole.
Discepole dell’umiliazione.
Io non le ho create.
Le ho riconosciute.
MONOLOGO III
“La femmina è una finzione. E io l’ho truccata.”
(Genet ora è in camerino. Si trucca davanti a uno specchio. Ma non si sa se sta diventando Claire, Solange, Madame o se stesso. La sua voce è morbida, ironica, tagliente.)
GENET:
La donna?
La femmina?
È un’idea.
Come Dio. Come lo Stato. Come la Virtù.
L’ho vista nascere in una parrucca.
Ho sentito la sua voce venire fuori dalla gola di un attore giovane, coi peli ancora sul petto.
Ho visto cosce finte, seni imbottiti, profumi rubati da camere borghesi.
(Ride. Apre una boccetta di cipria e la soffia in aria.)
Le mie serve sono maschi.
O forse no.
Sono incubi.
Maschere.
Specchi.
Io ho detto: niente fica in scena.
L’erotismo dev’essere sporco. Ma mai personale.
Non voglio la verità.
Voglio la menzogna che brucia.
(Si guarda le mani.)
Io ho amato gli uomini.
Con la fame. Con la rabbia.
Li ho scritti nei miei libri.
Ma ho dato a loro voci di donne.
Perché nella voce di una serva c’è più dolore che in mille pene maschili.
(Si alza. Si rivolge al pubblico.)
Io non ho mai voluto rappresentare il reale.
Il reale puzza di borghesia.
Io volevo costruire un incubo.
Dove le vittime diventano carnefici.
Dove la femminilità è uno specchio rotto.
Dove la libertà…
è sempre e solo una recita.
(Silenzio. Poi esce, lentamente, lasciando dietro di sé una scia di profumo e veleno.)
l’ultima scena: un atto unico, rituale e irreale, dove Claire, Solange e Jean Genet interagiscono per la prima e unica volta. Non è chiaro se Genet sia davvero lì, un fantasma, un’idea, il loro creatore o il loro doppio.
Lo spazio è lo stesso della “cerimonia”: la camera da letto di Madame. La tisana di tiglio è pronta.
Claire ha già indossato l’abito rosso. Solange è in ginocchio. La scena è sospesa, eterna.
Ultima Scena
“L’autore è entrato in scena”
(Luci basse. La camera da letto della Signora. Abiti, cuscini, profumi. Claire è già “diventata” Madame. Solange la serve. Ma l’aria è tesa. Inizia un brusio – come vento – e poi una voce.)
GENET (fuori campo)
L’ultima volta che vi ho sognate, vi stavate avvelenando a vicenda.
E io… ridevo.
Ridevo con il cuore stretto.
Perché se la tragedia è fatta bene, fa ridere Dio.
(Genet entra. Non si sa da dove. È vestito di nero, semplice, ma porta al collo un foulard rosso – come l’abito di Claire. Le sorelle si immobilizzano. Poi lentamente si girano verso di lui.)
CLAIRE
(guardandolo fisso)
Chi sei? Il giudice?
SOLANGE
O il boia?
GENET
Né l’uno né l’altro.
Sono colui che vi ha amate abbastanza da imprigionarvi per sempre.
Il vostro Dio… con la bocca sporca.
Il vostro autore… con le mani piene di desiderio.
Il vostro padre…
(ride)
…senza patria.
CLAIRE
Ci hai dato i gesti della Signora.
I suoi profumi. Le sue parole. Ma ci hai lasciate povere.
Siamo costrette a odiarla con amore.
A imitarla fino a scomparire.
SOLANGE
E ci hai negate.
Hai detto che non siamo vere donne.
Che dovremmo essere uomini travestiti.
Che le nostre mestruazioni sono finte.
Che i nostri seni sono metafore.
(Genet si avvicina. Prende la tazza con la tisana di tiglio. L’annusa.)
GENET
Voi siete più vere di qualunque donna.
Perché non esistete.
E nell’irrealtà… siete immortali
(Silenzio. Claire si irrigidisce. Solange si alza.)
CLAIRE
Hai scritto la mia morte.
Hai messo il veleno nella mia bocca.
Hai fatto di me una parodia.
Un grido travestito da canto.
SOLANGE
Hai scritto la mia colpa.
Mi hai lasciata viva a reggere la condanna.
Non c’è rivoluzione nel tuo teatro.
Solo spettacolo.
(Genet si siede. Le guarda.
GENET
Vi ho dato la scena.
E con essa, una possibilità di farvi ascoltare.
Non vi basta?
CLAIRE
No.
Perché ci ascoltano, ma non ci credono.
Pensano che sia un gioco.
Una provocazione d’autore.
Un’ombra queer su un palcoscenico piccolo borghese.
SOLANGE
La servitù è diventata estetica.
La nostra umiliazione, una poesia.
Ma il dolore è rimasto.
Sordo.
Reale.
(Genet si alza. Prende la tazza e la porge a Claire.)
GENET
Bevi, Claire.
Compi il gesto che ti ho scritto.
Così ti libererai.
E forse anche io.
(Claire prende la tazza. Guarda Genet.)
CLAIRE
E se decidessi di non farlo?
GENET
Saresti finalmente libera.
Ma io…
morirei autore.
(Claire sorride. Solange si avvicina. Si toccano le mani. Poi Claire beve.)
CLAIRE (con voce diversa, come Madame)
Grazie, Solange.
Portami via da qui.
Nel tuo corpo, nella tua rabbia.
Nelle tue notti silenziose.
(Claire crolla dolcemente sul letto. Le luci diventano rosse. Solange le chiude gli occhi. Genet guarda la scena, immobile.)
GENET (quasi in un sussurro)
L’ho uccisa.
L’ho amata.
L’ho scritta.
E così sia.
(Sipario.)
Note finali
Questo finale è concepito come un rituale metateatrale, in cui la finzione viene esposta, tradita e riavvolta su se stessa. Genet, come autore queer e sovversivo, non è salvato né condannato, ma coinvolto.
Le sorelle, per una volta, non si odiano. Ma non si amano neppure. Agiscono per la necessità tragica della loro condizione.
NOTE DELL’AUTORE
(a margine dell’ultima scena: “L’autore è entrato in scena”
Jean Genet e il fatto reale
Jean Genet non ha mai nascosto che “Le serve” (Les Bonnes, 1947) sia ispirato a un evento realmente accaduto in Francia nel 1933: il caso Papin. Due domestiche, sorelle di sangue, Christine e Léa Papin, uccisero brutalmente la padrona e la figlia, in una casa borghese di Le Mans. L’omicidio scosse profondamente l’opinione pubblica francese dell’epoca, tanto per l’efferatezza quanto per l’apparente gratuità.
Il crimine, all’apparenza privo di movente, divenne presto simbolo di una rivolta repressa, sessuale e di classe, scatenando reazioni accese nei giornali, nei filosofi e nei militanti politici. Fu letto come sintomo di una tensione sociale mai risolta tra la borghesia e la servitù, come denuncia silenziosa del sistema.
È su queste fondamenta reali che Genet costruisce un’opera irreale, paradossale, sognante: un dramma che non cerca il realismo, ma lo travolge con la sua stessa caricatura, trasfigurando il fatto di cronaca in una liturgia di desideri repressi, maschere sociali e ruoli impossibili da abitare.
Fonti fondamentali:
Lynda Hart, Making a Spectacle (University of Michigan Press, 1989)
Jean Genet, Tutto il teatro, Il Saggiatore, 1983
Jean-Paul Sartre, Santo Genet, commediante e martire, Il Saggiatore, 1972
Leo Bersani, Homos. Diversi per forza, Pratiche Editrice, 1998
Le serve rientra, a pieno titolo, in quel fenomeno radicale e dirompente chiamato “Teatro dell’assurdo”, definizione resa celebre da Martin Esslin. Insieme a Beckett, Ionesco, Adamov, Genet demolisce le convenzioni teatrali borghesi dell’Ottocento, disarticolando:
la trama lineare,
il tempo realistico,
-
l’unità psicologica dei personaggi.
Non c’è catarsi nel senso aristotelico, né redenzione, né progresso. La scena si trasforma in un luogo rituale, disturbante, dove il linguaggio stesso si corrompe e perde la sua funzione comunicativa per diventare strumento di manipolazione, desiderio e fallimento.
Le cameriere di Genet non parlano tra loro, ma recitano sempre per qualcun altro: per il pubblico, per la Signora, per Genet stesso. E questo teatro esplode le maschere, mostra l’impossibilità di uscirne.
Un invito al lettore
Se con questo piccolo testo, che mescola finzione, riflessione e un dialogo impossibile tra autore e personaggi, siamo riusciti a far nascere nel lettore anche solo la curiosità di sfogliare “Le serve”, o il desiderio di conoscere la vita scandalosa, fiera e contraddittoria di Jean Genet, allora l’obiettivo è stato raggiunto.
Perché Genet non si legge per capire, ma per lasciarsi disturbare.
Si entra nel suo mondo non per rispecchiarsi, ma per essere spogliati di ogni illusione.
Ed è proprio per questo che, oggi più che mai, Le serve è un’opera urgente.
Perché parla di identità che non coincidono,
di ruoli che fanno male
e di una rivoluzione che non arriva mai…
… ma si ripete ogni sera, come una cerimonia.
Fine delle note.
Sipario.
Francesca Mezzadri