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Lo Shibari_2

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Nella testa “legata”

Scavando nel solco delle frizioni inconsce ci troviamo di fronte al muro delle (in)certezze, fatto di scalpore, sudore, carne e fuoco. Perché dovrei farmi legare, strizzare e penzolare come un prosciutto stagionato? Il seme dello Shibari germoglia nel tempo, una sorta di assuefazione concettuale si fa strada nel perpetrarsi e attorcigliarsi tra le catene (libere) del pensiero. È uno stato di #benessere (e l’hashtag sarebbe da fissare nei social per spezzare la consuetudine dei post melensi sul pensiero positivo buono solo a fare marketing). È uno stato di (in)coscienza, il frullio perpetuo del donarsi all’estasi frugale dell’attimo. Cogli l’attimo, cogli il mio corpo. Il dono della sospensione, perché al di là della fiducia riposta e concessa al Maestro delle Corde vi è un istintivo e naturale desiderio di abbandonare il corpo fisico. Una sorta di bilocazione temporanea, nella quale la mente si proietta al di fuori sollecitando solo i sensi sessualmente più esposti. Come se accendessimo una miccia e assistessimo al progressivo aumento di temperatura del fuoco attorno al nostro piede, poi tra le ginocchia, l’inguine, il tratto pelvico, i fianchi, il sedere, la schiena, i gomiti e l’avambraccio, a volte sino alla bocca. Concedersi senza perdere il legame, farsi una gita al largo dal caos quotidiano e poi rientrare per vedere l’effetto che fa. Una condizione eccezionale dall’intimità scatenante, le corde sono materia e frutto del Maestro, il pennello per una tela 3D. L’opera compiuta segue un rito, legare e sciogliere, fare nodi e disfarli, creare e scomporre, respirare se stessi e il corpo altrui. Legarsi per quei minuti di silenzio cerebrale, unirsi in una decomposizione arbitraria, sfumata di auto-possessione. Il cuore batte? E quanto batte? È soggettivo. E la sudorazione? Ci si eccita? Si viene? Quali sono le reazioni? Imprevedibili ma quasi sempre trascendentali, soprattutto tra mani di buona esperienza. Vedete, è come buttarsi a strapiombo da un ponte, che sia la prima volta o la decima, sarà pur sempre un’esperienza irripetibile, la si può immaginare e la si può preparare ma al momento del salto non si potrà mai prevedere l’esito. La testa confusa da giorni di preparazione, il training della matricola, oppure l’ennesimo sballo della serata, oppure ancora il traguardo di una vita passata a seguire corsi di apprendimento per poi esaltarne i contenuti sul proprio corpo e un giorno tramandarne la conoscenza. Nel mistero di una pratica ancora nascosta tra le maglie dell’ipocrisia italiana si cela il nascondiglio della coscienza, il rifugio dell’innocenza, l’esigenza di un abbraccio paterno che stringa a sé la propria figlia incosciente, desiderosa solo di un sussurro rassicurante. In questo fiato contro pelle, pelle contro battito, forse possiamo percepire (alla distanza siderale della non esperienza-diretta) il filo che connette i co-autori di una partecipazione isolazionista. Non ho mai assistito ad un “incantesimo” Shibari che non prevedesse questa condizione di totale assenza dallo scenario circostante.

Due anime sull’altare, due anime rituali distanziate dagli spettatori discreti, separate da un cerchio magico invisibile. In questo atto teatrale si compie la beata speranza e il Salvatore altro non è che il proprio Io incastrato fra gli inframondi astrali della sospensione. No hay banda solo il rumore del silenzio. Una vista assordante per lo scrutatore, un suono dispensatorio per il fruitore e nel mezzo l’arte del concetto, il Maestro incantatore, il dissuasore mobile degli atomi nello spazio. Lo Shibari come fisica del fisico, lo spaccato spazio-temporale dell’upside-down, la palingenesi del respiro interrotto, del corpo in-(rac)colto esteso in fisica cellulare e fisico cerebrale. Addentrarsi è come camminare nelle sabbie mobili con due mani pronte a sollevarti, è come filtrare le ossa ai raggi ultravioletti e percepire il surriscaldamento di ogni singola vena, come depositare l’arcata dentale sul suolo ghiacciato delle Alpi e lasciarsi inondare da un fiume in piena. Non distinguere più tra caldo e freddo, mani e piedi, perché i tuoi piedi sono lì a due passi dal tuo volto e ne avverti la loro presenza. Ribaltare se stessi è un po’ come dormire sotto il letto e lasciare che sopra vi sia il tuo doppio a tenderti la mano. La circoscrizione di un attimo, sfasato e dissonante. Eppure una sua logica, una sua poesia, nella contorsione dei legamenti è lì presente e va solo sciolta come i nodi tesi e avvolti tra cerchi, triangoli, rombi ed esaedri trapezoidali del tuo tutto.

Con Shibari_3 ci butteremo nel buco nero della metafisica e vi converrà indossare un casco molto resistente.

Samuel Chamey

 

Photo credit: Garth Knight’s “Blood Consciousness”

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