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Louis Aragon. Il paesano di Parigi

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Il surrealista Aragon entra nell’immenso labirinto urbano di Parigi e lo sfida apertamente perché, per vincere il labirinto, bisogna attraversarlo. È il labirinto costituito dal Passage de l’Opéra e dal parco di Buttes-Chaumont, ma, anche e prima di ogni altra cosa, dalle memorie dadaiste, inscritte in questo e in quel luogo, di ricordi abrasi da una città in trasformazione, in cui passato e presente coesistono ancora. Soprattutto, per dichiarazione iniziale dello stesso autore, Il paesano di Parigi (trad. Paolo Caruso, Il Saggiatore, 1996) è il tentativo di creazione di una mitologia moderna, dentro la quale lo spazio cittadino è esplorato, vagliato, osservato e setacciato attraverso il filtro della visione artistica, da uno sguardo mnemo-onirico e trasfigurante, in grado, al contempo, di estrema accuratezza ricostruttiva, profondissima capacità di penetrazione ed estrazione di materiale fertile su cui lavorare.

L’esplorazione, a partire dal Passage de l’Opéra è, infatti, prima di tutto un’accurata ricostruzione visiva, una fedele descrizione, fatta metro dopo metro, che si allarga e tracima subito in altro, ad esempio nel ricordo di una conversazione con Paul Valéry riguardo a un’agenzia che «s’incaricava di far pervenire ad ogni indirizzo lettere provenienti da qualunque punto del globo, il che permetteva di simulare un viaggio in Estremo Oriente, per esempio, senza lasciare d’un passo l’Estremo Occidente di un’avventura segreta». Qui, Aragon rintraccia i segni lasciati dalle grandi lottizzazioni, dalle trasformazioni urbanistiche che hanno cambiato il volto della città, ricopia e riproduce — nel modo che, più tardi, sarà proprio di Georges Perec in Vita istruzioni per l’uso — cartelli e comunicazioni pubbliche, articoli di giornali, targhette di esercizi più o meno legali, pubblicità di biscotti e preservativi: la densità del reale trabocca dalla pagina e sembra prendere corpo attraverso e grazie alla dimensione della lettura. Così accade anche nell’affrontare il Sentimento della natura al Parco dei Buttes-Chaumont, dove, un giorno, Aragon si recò in compagnia di André Breton e Marcel Noll, luogo, per loro, del miraggio, «dove ogni malumore si dissipava, sotto una speranza immensa e ingenua». Vi giunsero in taxi, superando rue La Fayette, tagliando il nono e il decimo arrondissement, in direzione sud-ovest nord-est, per arrivare al diciannovesimo, lì dove «il canale Saint-Martin si unisce al Canale de l’Ourcq, all’imbocco del bacino de la Villette, ai piedi dei grandi fabbricati della Dogana, a gomito con i boulevard esterni e con il metrò aereo che riunisce derisoriamente le due stazioni estreme, Nation e Dauphine». Argon, e con lui gli amici nel surrealismo, ama “perdersi”.


È lo stesso Aragon, nell’ultimo capitolo del libro, intitolato
Il sogno del paesano, a “illuminare” tutte le parole raccolte fino a quel punto, pagina dopo pagina:

«Faccio fatica a elevarmi al particolare. Procedo nel particolare. Mi ci perdo. Il segno di questa perdita è tutta la vera conoscenza, tutto ciò che della vera conoscenza m’è toccato in sorte. […] Perché chi ha mai detto che il concreto sia il reale? Non è anzi tutto ciò che è fuori dal reale, e il reale non è forse il giudizio astratto, che il concreto presuppone solo nella dialettica? E l’immagine non ha forse, in quanto tale, la sua realtà, che è poi la sua applicazione, la sua sostituzione alla conoscenza?»

Quello che Aragon definisce una sorta di guida della città assume dimensione del tutto differente, in cui osservazione dello spazio, creazione artistica e trasfigurazione (più o meno libera) della realtà, o del concreto, diventano un’unica cosa: un’Opera; il frutto di una Vita poetica, che ha necessità di trasformare la metropoli in una mitologia poetica moderna, che non può esaurirsi in una semplice enumerazione, che non può avere come unico orizzonte la città stessa, ma solo ed esclusivamente quello dell’incontro tra le sue strade e la Surrealtà.

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