Lucio Corsi non era mai stato come gli altri. C’era in lui una fragilità che non sapeva nascondere, una bellezza sghemba che lo rendeva diverso. Non era mai stato un tipo da muri alzati o corazze ben strette: aveva mani leggere, un cuore esposto al vento, e un modo di stare al mondo che sembrava sempre sul punto di sfuggire ai suoi confini. Una specie di Peter Pan con la chitarra, ma senza la fastidiosa sindrome.
Da bambino sognava di essere invincibile. Uno di quei ragazzi che non tremano mai, che sanno sempre dove mettere i piedi. Voleva essere un duro, un robot con lo sguardo di ferro, uno che scappa e non si volta indietro. Poi, un giorno, ha capito che i robot arrugginiscono e i duri alla fine piangono sulle canzoni di Battisti. Così ha scelto un’altra strada: restare, e farlo senza armature.
Lucio era come quelle cose storte che, invece di rompersi, trovano nelle loro crepe la forma perfetta. Aveva imparato a cantare le piccole cose, quelle che nessuno guarda, eppure reggono il mondo. Non cercava applausi, non cercava gloria. Si muoveva con la stessa leggerezza di una nota lasciata nell’aria, destinata a vibrare solo per chi sapeva ascoltare. O, al massimo, per chi avesse il volume abbastanza alto.
Forse il segreto l’aveva scoperto ascoltando il sussurro dei girasoli con gli occhiali, quelli che gli avevano detto di stare attento alla luce. Perché era lì, tra un lampo e un’ombra, che si nascondevano le verità più difficili da affrontare. E lui lo sapeva bene. Sapeva che scappare portava sempre allo stesso punto, che il coraggio non stava nel fuggire ma nel restare.
Così aveva scelto di stare proprio lì, nel margine sottile dove il cielo sfiora il mare, in quel punto fragile che non è un limite ma una possibilità. Aveva accettato di perdersi, senza fretta di ritrovarsi.
Perché, in fondo, non era altro che luce. Non era altro che Lucio. E, a giudicare dai premi, anche la critica se n’era accorta.
Francesca Mezzadri