Fresco di stampa per Elliot Edizioni, Regie senza films, il secondo vero libro di Luigi Socci, si appresta a diventare una delle raccolte di poesie più importanti di questo decennio in apertura.
L’esordio letterario è del 2004 (VIII Quaderno italiano di poesia contemporanea, a cura di Franco Buffoni) a cui segue una plaquette, nel 2009, per Edizioni D’If. Il primo libro organico invece è Il rovescio del dolore (Italic Pequod, 2013) e dopo una parentesi del 2017 con La prevenzione del tempo (Valigie Rosse; Premio Ciampi Valige Rosse 2017), ritorna dopo sette anni con questo nuovo lavoro, riconfermando alla scena poetica di essere uno dei migliori chirurghi del verso che abbiamo in Italia; un chirurgo perfetto è tale se non si vedono i segni del bisturi e il lavoro sui versi di Luigi Socci non lascia segni. Modella creature pervase sì di malinconia ma di una bellezza senza sbavature, da lasciarsi solo contemplare: perfette, compatte. Se l’impronta di Caproni è il tratto più visibile delle sue ascendenze poetiche, la lunga sedimentazione dei versi, il lavorio continuo, maniacale – di finitura, la frequentazione col teatro, il cinema, la poesia sonora, come le punte della lirica nel Novecento, fa da sfondo a una voce unica nel panorama poetico che non si confonde in progetti programmatici o mode. È uno dei motivi per cui la sua poesia resterà.
Regie senza films, già dal titolo, rievoca il cinema, che nei suoi dispositivi, è citato sistematicamente da Socci. Attraversando tutto il libro, pare di trovarsi al sequel, partendo dal finale, de Il Laureato: spenti i riflettori, finita l’azione e la dittatura della trama, lì inizia a girare la sua poesia, a toccare con disincanto i tempi morti di cui è pervasa l’esistenza, a catturare la frizione – mai traumatica, comunque alienante – tra individuo e società. Si è parlato molte volte nel corso del secondo Novecento italiano dell’effetto Buster Keaton. Regie senza films è un tripudio della comicità keatoniana: alla contorsione linguistica che innesca spesso l’effetto comico – giocato sui calembour linguistici e non sulle immagini –, si unisce una fredda coscienza, per quanto malinconica, che la nostra epoca è segnata dall’assenza di eroi, di vittime e carnefici, e ogni maschera è spogliata dalla caratterizzazione che la distingue, per girarla e trasformarla nello specchio di Gogol. L’io poetico non è l’Altro, ma il noi, come gente, trasposta nei suoi tic aggregativi, nelle proprie idiosincrasie.
Ormai quello che pensiamo essere il mandato sociale del poeta è definitivamente rescisso. Il processo dello smarrimento dell’aura è definitivo, irrevocabile. Socci lo sa, e avulso alla nostalgia, sembra scherzarci sopra. La sua poesia è in molti frangenti una presa in giro dell’aura poetica, tanto da assumerla spesso a espediente comico. Più non prende sul serio il ruolo del poeta, più prende terribilmente sul serio il lavoro del poeta: la manipolazione del linguaggio. Avendo rinunciato a cambiare il mondo, Socci si prende la rivincita con la lingua. Infatti, la sua poesia mette d’accordo tutti, tanto da essere diventato uno degli autori più ecumenici del decennio appena trascorso: esaltato e dalla critica (da Cortellessa a Marchesini) e dal pubblico. Calca i palchi dei poetry slam italiani, di cui è diventato uno dei maggiori punti di riferimento della scena italiana. D’altronde solo un perfezionista maniacale o Baudelaire (quindi un perfezionista maniacale) può permettersi l’esordio vero e proprio a 47 anni, dopo aver frequentato palchi e riviste specializzate, plaquette e convegni per più di un decennio – e il secondo libro sette anni dopo.
Non c’è lieto fine, né un finale vero e proprio in Regie senza films. L’apparente semplicità della sua poetica, da rendere il libro accessibile a una vasta gamma di lettori-tipo, cela (in verità con un telo semitrasparente) universi letterari, artistici, stratificati in un’infinità di piani. Il libro tiene incollati per tutta la durata, commuove a tratti, fa ridere, e – come accade raramente – si fa leggere tutto: dall’inizio alla fine; per invogliare a rileggerlo appena conclusa l’ultima poesia, con un sorriso amarognolo, una tristezza dolce, dove ci si annida senza la voglia di uscirne. Direi che la scommessa dell’autore è vinta a piene mani e tocca a noi lettori, adesso, piantare la tenda tra le pagine e sostare in quella terra tipografica per il tempo necessario, per più tempo possibile, e ritornarci ogni volta ne sentiamo il bisogno. Quando si smarrisce una parte di noi nella lettura, si procede nella ricerca per ritrovarla, col risultato di smarrirne altre, che gli spazi bianchi accolgono, così da essere sempre più noi il libro appena letto; per poi ritornare più leggeri, con un senso di sospensione, di mancamento. Ed è questa una delle rarità che accadono nel viaggio attraverso Regie senza films.
Julian Zhara