Che cosa può insegnare l’arte che nessun’altra forma espressiva trasmette? È questa, in sintesi, la tesi iniziale del libro di Luisa Passerini Artebiografia. L’arte come forma di conoscenza soggettiva: guardando, ascoltando, seguendo i messaggi delle tre artiste oggetto del libro, cosa si arriva a percepire e comprendere personalmente?
Le tre artiste – Muna Mussie, Alessandra Ferrini, Binta Diaw – condividono in modi diversi, tra i poli del percorso biografico e dell’itinerario artistico, l’appartenenza a culture italiane e contemporaneamente l’attenzione per l’Africa. Un percorso che le accomuna all’autrice e da cui Passerini trae spunti per una riflessione di più ampio respiro su tematiche legate all’arte, alla cultura, alla violenza strutturale e alla colonizzazione/decolonizzazione.
Muna Mussie analizza a fondo il concetto di oblio scegliendo di decostruire l’accezione negativa comunemente data per legarla alla pratica del ricamo da lei sovente utilizzata e andare così a agire fisicamente sulla parola “oblio”. Con il gesto, al contempo pratico e simbolico, di scrittura e ricamo della parola “oblio” forma e contenuto si fondono al punto che appare chiaro il fatto che l’oblio rappresenta, alla fin fine, qualcosa che unisce.
Già Renan aveva individuato nell’oblio un fattore essenziale nella creazione di una nazione. Al contrario della memoria storica che rappresenta spesso un pericolo per le nazionalità. In quanto la ricerca storica riporta alla luce i fatti di violenza che hanno accompagnato l’origine di tutte le formazioni politiche.1 Al Mattatoio di Torino l’artista ha voluto dare origine a una installazione che includesse tutti, umani e non umani. Dai muri del Mattatoio sembrano ancora udirsi dei lamenti. Da qui l’idea di Pianto del Muro che molto ricorda e si rifà al Muro del Pianto di Gerusalemme, un luogo iconico che richiama alla mente una storia nota di grande violenza.
Ecco allora ritornare i concetti di oblio e memoria storica. L’oblio del ricamo diventa allora un’occasione per condividere un dolore, una tristezza, un lamento. Per condividerlo. Ripensarlo fino a farlo sparire.
Anche Alessandra Ferrini indaga e avvicina i concetti di umano e non-umano ma in un’accezione differente, nella quale il non-umano diviene dis-umano. Con Gaddafi in Rome: Notes for a Film, una video-installazione con la quale l’artista rappresenta i controversi accadimenti della storia geo-politica contemporanea, focalizza l’interesse sull’utilità della ricerca per la difesa dei diritti umani e della cittadinanza globale in epoca post-coloniale.
C’è un filo diretto tra il passato e il nostro presente, sebbene talvolta venga reso invisibile. Il periodo coloniale è forse il momento storico che maggiormente vede acutizzata la contrapposizione tra memoria storica e oblio. Tra necessità di comprendere, per superare e migliorare, e desiderio di dimenticare, nascondere, rinnegare, minimizzare. Destrutturare e ricomporre l’oblio del colonialismo porta, ancora una volta, all’emergere del dolore, della tristezza, dei lamenti, della violenza tutta che in esso ha albergato.
Binta Diaw ha concentrato molto i suoi sforzi artistici nella rappresentazione del “corpo nero”. Una presenza fisica, anatomica. Una consapevolezza trasmessa in un mondo nel quale si pensa ancora al bianco e al nero in termini di separazione e marginalizzazione.
Il 40% delle donne africane si sottopone a trattamenti per schiarire la pelle, spesso con creme che contengono mercurio. Una pratica dannosa per la salute. Il problema però non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di Le monde del 2008 già rilevava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore a volersi sbiancare la pelle. Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata dalla maggior parte della popolazione, nella convinzione che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi. Così la prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento.2
Binta Diaw, al contrario, con le sue opere, di forte impronta installativa, sembra invece determinata a riprendersi e, al contempo, a trasmettere tutta la fierezza della nerezza. Il messaggio che viene trasmesso all’osservatore è di forte impatto emotivo, con rimandi alle origini della vita stessa. L’uso di materiali organici come la terra ha una forte valenza simbolica nella sua duplice accezione di elemento della natura e principio creativo. Affiancare e intrecciare poi a questo materiale elementi artificiali, come i capelli sintetici per le extension, amplifica l’impatto dell’opera stessa nello spazio al punto che queste installazioni sembrano occupare e “prendersi” l’intera scena. Come fosse la rappresentazione simbolica di una lenta e silenziosa marea nera che avanza in maniera costante e solo apparentemente impercettibile.
In tutte e tre le artiste Luisa Passerini avverte risonanze di sentimenti che pertengono alla sua vita, ma che non riuscirebbe a esprimere se non attraverso l’interlocuzione con le loro opere. Gli elementi biografici, indagati a fondo nel testo e funzionali a esprimere appieno il senso del termine artebiografia, sono sempre introdotti in colloquio con l’opera artistica, intendendo con ciò sottolineare la relazione tra alcuni momenti cruciali dell’esperienza di vita e quelli della creazione artistica. Individuale, per ogni singola artista e per l’autrice. E corali, in un certo qual modo, laddove Passerini lega le sue esperienze personali a quelle delle artiste e alle loro opere.
L’arte è una forma di espressione umana che affonda le sue radici nelle profondità dell’anima e tocca corde sensibili della persona. Da sempre ha avuto il potere di evocare emozioni, suscitare riflessioni e creare un senso di connessione tra l’artista e il fruitore. A questo l’autrice ha legato le esperienze biografiche di ognuna e di tutte che vedono, tra l’altro, uno stretto legame con il continente africano.
Enormi parti del mondo stanno diventando nere, tanto che alla fine del secolo in corso una persona su tre o quattro sarà africana.
Da qui al 2050, la sola Africa subsahariana conterà all’incirca il 57% della crescita demografica globale e il 23% circa della popolazione mondiale.3
Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del “Terzo Mondo”, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e una gioventù sotto proletarizzata. L’Africa, sostanzialmente, sta diventando una condizione globale.4
In Europa lo spirito è annacquato, corroso dalle forme più forti di pessimismo, nichilismo e superficialità. L’Africa potrà anche essere sconfinata ma il suo spirito e i suoi spiriti sono lucidi, trasparenti, la sua spiritualità sottile seppure ampia e inclusiva. L’Europa ha “decolonizzato” senza riuscire a “autodecolonizzarsi”.5
Non solo tutte le grandi scoperte e conquiste della storia moderna sono per lo più attribuite agli attori europei, ma l’intero schema storico è costruito in modo tale da escludere l’Africa, presentando l’Occidente come il centro e la forza motrice della storia. L’Occidente ha utilizzato gli attributi della razza per stabilire differenze attraverso la selezione di criteri che favoriscono la sua normatività, il più evidente dei quali è la pretesa esclusiva di razionalità. Di conseguenza, tutto ciò che differisce dall’Occidente diventa irrazionale e primitivo.6 Quando, invece, le agentività umane sono coinvolte e prioritarie, lo sviluppo diventa una questione di capacità umane nei termini di libertà e opportunità piuttosto che di semplici indicatori economici.7
Le posizioni filosofiche africane sono emerse a partire dalla chiara percezione dei profondi danni causati dall’interiorizzazione del discorso coloniale. Convinti che nessuna politica di sviluppo potesse dare frutti finché il sé africano fosse gravato dallo spettro dell’arretratezza, hanno elaborato teorie per contrastare il discorso colonialista al fine di realizzare la decolonizzazione della mente africana.8
In Occidente, anche nei contesti scolastici tendono ancora a riprodursi le ingiustizie socio-economiche del mondo esterno, a perpetuarsi gli stereotipi culturali che giustificano le gerarchie tra gruppi sociali.9 Secondo la teoria del deficit thinking gli studenti delle minoranze e le loro famiglie sono considerati i principali responsabili dell’insuccesso scolastico da loro sperimentato poiché sono privi delle conoscenze e delle competenze culturali attese. Il deficit thinking ha trovato nella colonialità del sapere10 un terreno fertile per il suo sviluppo e la sua diffusione nei sistemi scolastici occidentali.11 La persistenza del deficit thinking approach a scuola si prolunga e si ripercuote poi sull’intera società generando così una sorta di circolo vizioso.
Il potere oggi in essere che muove i processi di globalizzazione di stampo neoliberista trova le sue radici nel colonialismo eurocentrico che, a sua volta, rintraccia nella conquista dell’America Latina il suo atto fondativo. La sottomissione territoriale, politica ed economica ha incluso anche la colonialità del sapere: la cultura eurocentrica divora dall’interno le altre culture attraverso la colonizzazione dell’immaginario delle popolazioni sottomesse con l’imposizione di una super-ideologia. L’assolutismo scientifico positivista imposto dalla colonialità del sapere costituisce ancora oggi lo sfondo epistemologico dei sistemi scolastici occidentali. Gli studenti altri, i cui saperi non sono riconosciuti dal sistema scolastico – il plurilinguismo, la conoscenza del mondo naturale, ecc. – sono letti attraverso uno sguardo che pone l’attenzione su ciò che manca, sulle lacune rispetto alle competenze definite dal curricolo.12 La decolonizzazione della conoscenza è indicata quale compito fondamentale della decolonialità al fine di risoggettivizzare (s)oggetti coloniali.13
La decolonizzazione del patrimonio è attualmente uno dei temi più caldi del dibattito contemporaneo in ambito culturale. Intendendo con essa sia la comprensione di quel passato che aleggia tuttora sul nostro presente che la sperimentazione di un uso più democratico del nostro patrimonio.14 Decolonizzare significa interrogarsi sulle istituzioni: come e perché viene attribuita priorità ad alcune forme di conoscenza e autorità rispetto ad altre? Come vengono organizzate e classificate le conoscenze? Chi determina i criteri di selezione e di qualità delle collezioni?
La colonizzazione culturale ha interferito e interferisce tuttora con la volontà delle culture locali. Non vi è alcun dubbio nel riconoscere che la questione post-coloniale ovunque ha lasciato delle ampie ferite aperte e l’incapacità di trovare forme autoctone di “rimarginazione” ha solo favorito ingiustizie e guerriglie interne che hanno messo in forte discussione proprio il patrimonio culturale ereditato da queste colonie.15 C’è chi ha visto poi in questi movimenti di liberazione e rivoluzione, africani in particolare, una via d’uscita dall’avvilimento della quotidianità. Per Luisa Passerini l’Africa ha rappresentato il luogo di sovversione totale. Era l’Africa subsahariana o “nera” che attirava e prometteva. Era L’Africa-mondo, più che un continente: una dimensione storica; un modo di vedere l’intrico di passato, presente e futuro; una possibilità di invenzione e cambiamento di prospettiva. Il continente, ricorda Passerini, che sembra mantenere una “giovinezza inesplorata”.
L’interlocuzione di Passerini con le tre artiste e le loro opere ha guidato un itinerario apparentemente circolare, in quanto le stesse tematiche sono ritornate più volte. In realtà, come sottolinea la stessa autrice, si è trattato piuttosto di una spirale, perché i temi riappaiono in maniera diversa, il che permette di scoprirne nuovi significati. Tutte le fonti, anche quelle giuridiche e statistiche, nascondono o possono nascondere una valenza emozionale, generalmente attribuita alle forme d’arte. Peculiare della fonte artistica risulta essere, nell’analisi di Passerini, l’invito a molteplici forme di intersoggettività: tra chi ricerca e l’artista, tra l’artista e il suo tempo, tra quel tempo e il momento attuale, tra individui e realtà collettive.
L’arte è, per eccellenza, un luogo dove si incontrano in modo ossimorico la rappresentabilità e l’irrappresentabilità,16 allora in essa la negazione gioca un ruolo fondamentale dal momento che rappresenta un meccanismo chiave. Solo seguendo il sentiero della negatività, infatti, alcuni contenuti sono resi veicolabili a patto di essere in qualche modo cancellati. Vedere è un po’ come distruggere: Orfeo che guarda Euridice la condanna a morire per la seconda volta; Psiche violando il divieto di contemplare Eros scatena le furie di Venere; la moglie di Lot è trasformata in una statua di sale da Dio che aveva ordinato a tutti gli abitanti di Sodoma di non voltarsi per vedere cosa restava della città.17 Cogliere l’intenzione di un artista non è solo una faccenda di comprensione intellettuale poiché l’obiettivo dell’autore è piuttosto quello di destare nello spettatore lo stesso atteggiamento emotivo, la stessa costellazione mentale che ha prodotto in lui l’impeto creativo. Ecco allora che bisogna dirigersi non verso le ragioni dell’opera bensì verso i suoi silenzi per portare alla luce «le travail du négatif à l’œuvre dans l’œuvre» (“il lavoro del negativo all’opera nell’opera”).18
L’oblio di Muna Mussie, il dis-umano di Alessandra Ferrini, il corpo-nero di Binta Diaw, il vuoto di cui racconta Luisa Passerini nel quinto capitolo del libro e che l’ha portata a interrogarsi sulla propria esistenza, sembrano tutti aspetti dell’irrappresentabile impeto artistico che mira a illuminare il buio e oscurare, nascondere l’ovvio, unico modo per indagare oltre, per far comprendere e trasmettere allo spettatore il lavoro del negativo all’opera nell’opera.
Irma Loredana Galgano
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Luisa Passerini, Artebiografia. Percorsi di artiste tra Italia e Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2024.
1E. Renan (autore), G. De Paola (traduttore), Che cos’è una nazione, Donzelli, Roma 2004 (Conferenza alla Sorbona di Parigi del 1882).
2F. Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, Segrate (Milano), 2022.
3Orizzonte 2050: le prospettive di sviluppo dell’Africa, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 22 aprile 2020.
4J. Comaroff, J.L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.
5A. Mbembe, Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizzata, Meltemi, Milano, 2018.
6M. Kebede, African Development and the Primacy of Mental Decolonisation, in L. Keita, (a cura di), Philosophy and African Development: Theory and Practice, CODESRIA, Dakar, 2011.
7A. Sen, B. Williams, Development as Freedom, Knopf, New York, 1999.
8M. Kebede, op.cit.
9I. Vannini, La scuola di tutti e di tutte. Equità e qualità del Sistema e professionalità dell’insegnante: un’analisi incompleta, in LLL, vol.19, n°42, 2023.
10A. Quijano, Colonialidad y modernidad/racionalidad, in Perù Indígena, vol.13. N°29, 1992.
11P. Dusi, Breaking out of the box. Andare oltre il deficit thinking nei contesti scolastici eterogenei, in Educazione Interculturale – Teorie, Ricerche, Pratiche, vol.21, n°2, 2023.
12P. Dusi, op.cit.
13W.D. Mignolo, The Decolonial Option, in W.D. Mignolo, C.E. Walsh, On decoloniality, Duke University Press, Durham, 2018.
14L’ICCROM e la decolonizzazione del patrimonio, in Temi-Evidenza, UNESCO – Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, 02 dicembre 2021.
15O. Niglio, Decolonizzazione culturale e nuovi paradigmi locali, in Dialoghi Mediterranei, Istituto Euroarabo, 1 luglio 2021.
16M. Gagnebin, L’irreprésentable ou les silences de l’œuvre. Presses Universitaires de france, Pris, 1984.
17A. Tomaino, Per una buona psicoanalisi dell’arte: Vygostskij e il Mosè di Freud, in RIFL, vol.12, n°2, 2012.
18M. Gagnebin, Pour une esthétique psychanalytique. L’artiste, stragège de l’Inconscients, Presses Universitaires de France, Paris, 1994.