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Marcus Risso. Andrea Chaves – Il poeta e le montagne

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Ci sono luoghi a cui apparteniamo senza saperlo. Già da prima della nostra nascita, per qualche ragione, la nostra anima viene legata a un posto, dove prima o poi sarà costretta a tornare. Perché? Impossibile rispondere. Per qualcuno è questione di affinità, di semplice inclinazione, mentre altri vedono in tutto questo un Destino, stabilito da un Dio. Ad ogni modo questo legame esiste, ed è difficilissimo da spezzare. Chi non trova la casa della sua anima può tranquillamente continuare a vivere, nella solita routine, ma solo al prezzo di essere dimidiato. Alla sua persona manca qualcosa di essenziale per la crescita. Credo di sapere di cosa sto parlando, perché anche a me è successo. Ricordo ancora, anni fa, quando un giorno mi ero ritrovato ad Arona, sul Lago Maggiore. Ero già stato in quei luoghi magici, ma solo quand’ero molto piccolo, in compagnia dei miei genitori; praticamente non ne serbavo memoria, se non in modo confuso. Ed ecco che all’improvviso si schiudeva davanti a me il paesaggio del lago, con le sue meraviglie, e io mi sentivo come fossi arrivato. Dopo un lungo viaggio, ero finalmente a casa, in un luogo che mi dava la giusta ispirazione per vivere, per stare bene, per creare e ambientare le mie storie. Da subito mi veniva naturale pensare a dei personaggi, e proiettarli proprio là, sullo sfondo di quelle acque azzurre, accarezzate dal vento. Difatti di lì a poco sarebbero nati i primi embrioni del mio romanzo, L’Età Dei Profeti, che non potrebbe esistere senza il Lago Maggiore.

Perché vi racconto tutto questo? Per parlarvi di Andrea, che aveva anche lui, come tanti, i suoi luoghi dell’anima. Nel suo caso erano le montagne. Semplicemente non poteva vivere senza. Non era in grado di concepire una vita senza quei momenti di preparazione, che preludevano a una lunga scalata, fino alla vetta. Una sorta di ascensione, per temprare il corpo e lo spirito. Non era un hobby, un passatempo, o un modo di darsi un’identità, ma qualcosa di profondo, che lo pervadeva ogni giorno. L’altra sua passione era il Sommo Poeta, il Divino Dante Alighieri. Andrea – grande appassionato di poesia – vedeva nella Commedia un afflato mistico, un viatico straordinario di Arte e Conoscenza, tanto che voleva studiarla a memoria. In un periodo si alzava ogni mattina alle cinque, e poi, prima di andare a scuola, ripeteva fra sé e sé uno dei Canti, per inciderlo nella mente, con lettere di marmo. Sognava di laurearsi in Lettere, diventare professore; voleva proporre un nuovo modo di leggere la Commedia, per arrivare a quelle persone che oggi, forse spaventati da una certa Cultura, dal suo alone polveroso e snob, decidono di privarsi di tanta bellezza – la stessa che splende all’alba, sulla cima di una montagna, fra nevi e ghiacci smaltati di eterno.

A dire la verità non l’ho mai conosciuto. Se oggi so qualcosa di lui – e ancora abbastanza poco – è grazie allo splendido libro di Marcus Risso, che gli ha dedicato pagine bellissime. La prima volta che ho sentito parlare di lui è stato per puro caso, in un articolo di giornale. Si diceva che Andrea Chaves, di 21 anni, era morto travolto da una scarica di pietre, mentre affrontava in solitaria la via Major del Monte Bianco. A dispetto dell’età, era un alpinista di grande valore, abile ed esperto, con una straordinaria forza fisica e mentale; ma tutto questo non era bastato. Ancora una volta, la montagna aveva chiesto un tributo all’uomo. La notizia mi aveva colpito più del solito, più a fondo di quanto spesso succede, con certi casi di cronaca. Migliaia di uomini muoiono ogni giorno, spesso in modo atroce e ingiusto; ma la nostra coscienza è limitata, ed è in grado di accorgersi – oltre agli amici, ai parenti, alle persone amate – solo di pochissimi. Per me Andrea era uno di quelli. Me ne chiedo spesso la ragione, e non sempre so rispondere. Forse perché studiava nel mio stesso Liceo, a Novi, e pur essendo giovanissimo si era immolato alla sua passione. Non era uno dei tanti. Non si accontentava di esistere e basta, no, lui voleva vivere, a qualunque costo. E questo mi colpiva.

Cos’è l’Uomo? Quale che sia la risposta – e io non ce l’ho – di sicuro bisogna andare al suo costante bisogno di mutare, di trascendere, di ridefinire continuamente i confini dell’umano. A differenza di altri animali, non si accontenta mai di stare entro certi limiti, ma vuole sempre qualcosa di più, di diverso. È inquieto, angosciato, segnato dalla volontà e dalla ricerca. Così in un certo senso non c’è niente di più normale, per un uomo, di inseguire un obiettivo. Il lavoro, i figli, il matrimonio, una bella casa, la macchina, la pensione… è una sequenza che regge il mondo, nella sua dimensione economica (ne esiste anche un’altra oggi? A volte sembra di no). La differenza – quella che separa i pochi dai molti – è che i primi arrivano a porsi un obiettivo che è al di là del puro utile, è qualcosa che ha a che fare con l’ambizione, la crescita, la forza e l’energia, ma fuori dai soliti codici. Ho lavorato dieci anni in banca, perciò lo so bene: contrassegno dell’anima volgare è tipicamente questo – a che serve? Cosa te ne viene? Cazzo te ne frega! Pensa piuttosto a divertirti! Ma che senso ha? Io me ne fotto… l’anima nobile arriva a fregarsene del “perché”, statuisce da sola i suoi valori, senza alcun nesso di causalità. Sa che i soldi e il sesso sono un mezzo per arrivare a un Fine, non il Fine stesso. Altrimenti il valore si perde, tutto stempera nel grigiore. Dunque posso dire che non solo capisco, ma ammiro immensamente chi ha il coraggio di misurarsi con la Montagna: luogo terribile e impervio, che ogni anno, da decenni, uccide anche gli alpinisti più esperti, quelli che ne conoscono i segreti, e la rispettano, sempre, evitando spacconate o falsi eroismi. Strano a dirsi, per uno come me, che al massimo si concede delle passeggiate, e a quindici gradi soffre il freddo; ma è ciò che penso. E so che molti diranno – se l’è cercata – proprio come i cooperanti rapiti in Africa, i giornalisti embedded, i piloti e i sub, perché nessuno ti costringe a salire lassù, a quattromila metri, sfidando il ghiaccio e il vento; però la loro opinione vale poco – meno di zero. Chi la accetta in un certo senso nega la natura dell’Uomo, che è appunto quella di trascendere.

Ci sono libri che sono come una sorsata di acqua fresca. Una bevuta in un torrente, fra le montagne, dopo ore di arsura e fatica. Basta aprirli, e già in due o tre righe tutto è perdonato alla vita, tutto è dimenticato – le noie, le fatiche, le umiliazioni, le storture di ogni giorno – il cinismo, le battute, le polemiche, le solite idiozie, i libracci e i film mediocri, i discorsi della Crisi – non resta altro adesso, che un canto perduto nel vento. Perché la storia di Andrea è quella di un’anima che aveva trovato la sua strada, e non aveva rinunciato a seguirla, sempre, in ogni istante. Nel libro si trovano mille aneddoti di un ragazzo che era una guida per i compagni, uno studente modello, ma anche uno sportivo dalla fibra d’acciaio, appassionato di ascensioni e karate, aliante e lunghe passeggiate.La prima tentazione sarebbe quella di dire – ha combattuto, ma alla fine ha perso. Ci ha lasciati troppo presto, ucciso dalla sua stessa passione. Ma sarebbe falso. Lo si legge chiaramente nei diari di Andrea: miei cari genitori, non sarà mai colpa vostra. Ho fatto ciò che mi ha reso felice. Dunque è lui stesso a parlarci, da un’altra dimensione, spiegandoci che ha compiuto il suo destino. Tutto il resto non conta, è solo chiacchiera. E oggi voglio dirtelo, Andrea: buon viaggio. Ovunque tu sia, adesso, che ci sia ancora quella luce, come sulla cima del Monte Bianco, del Rosa o dell’Aiguille Verte. È là che si nasconde l’Infinito, in un lampo di Paradiso. È là dove l’anima riposa in pace, finalmente libera, al di fuori del Tempo. Qui il cerchio si è chiuso.

Matteo Farneti

 

Recensione al libro Andrea Chaves. Il poeta e le montagne di Marcus Risso, Itaca Edizioni, 2018, pagg. 192, euro 15.

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