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Maria Grazia Calandrone inedita. Quando l’amore era amore

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La figura centrale stava senza paura nel fluoro del sole.

Lo dicevano tutti, com’è bella. Suscitavi rispetto. Sui verdi appezzamenti

i tuoi sonagli.

L’alloro del giardino è stato il primo a dare il suo consenso. Poi, è venuto il silenzio

necessario, l’offertorio del cielo a primavera, i suoi colori

saturi

e il segno indelebile che fa la luce

dove il collo regge

la testa come un organo solare. Una corona, il regno abbandonato

del pensiero. Ci vuole poco

a credere alla natura.

L’amore modifica la biologia. Comincia

dal modo di piegare la testa

per guardare le cose

da vicino. A occhi chiusi

i bambini. Ti rapprendi nell’ombra della stanza. Sul tuo volto

un reticolo come di stella.

Il profumo dell’ambra, oro del mare e lacrima

dell’albero. O meglio, concrezione

dei capodogli. Patologia cetacea, macrocefala. Stagnola

dell’inanimato. Una pepita

nera. Muschio animale e fieno. L’interno messo a nudo

di un corpo gigantesco. Cera alba secreta

per scivolare contro le mucose intestinali senza attrito di scaglie

cornee, becchi e ossa

di calamari. Un ammasso ceroso esposto all’aria

matura galleggiando per gli oceani

come un dettaglio nudo, vivo al centro.

Uno sterpo che nasce dal corpo, una presenza umana non inerente

posa la mano aperta sul tavolo

in una muta supplica. Io giro intorno all’asse del tuo corpo

come in luoghi insidiati dall’acqua. Di sera

l’acqua è piena di croci

senza ornamento, è metallo battuto che contiene

il granito ottuso delle murene. Sono

la disperazione della creatura che sta per essere abbandonata. Sono

la vastità degli spazi

dove disporre le rovine

e il mistero del buio nella tua immagine.

L’amore si misura a cose fatte. Non sapevi che fosse, eri sincera. È continuo

l’attrito delle tende. Lo sfregamento delle stoffe su 

forcelle d’acciaio

dice ancora, davanti alla finestra Tu

come stai? Hai pace?

Roma, 11 maggio 2020

Maria  Grazia Calandrone

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